Al primo impatto con l’università o con il mondo del lavoro, un giovane su cinque si rende conto di non essere abbastanza preparato, mentre uno su tre ammette di essersi reso conto che avrebbe voluto studiare materie diverse da quelle fatte nella scuola scelta. Un dato che emerge dal XXI Profilo dei diplomati, presentato giovedì 29 febbraio da AlmaDiploma e riportato dal Corriere della Sera. Per Alessandro D’Avenia si tratta dell’“esito inevitabile di un orientamento quasi assente nella scuola secondaria di primo e secondo grado”. Ecco cosa scrive lo scrittore e docente palermitano sulla sua rubrica Ultimo Banco: “Si esce da medie e superiori possedendo delle competenze, ma non se stessi. E senza questo non si può essere felici. Perché? In un mondo in cui il criterio della felicità è l’efficienza, ciò che conta è acquisire quanto prima competenze ‘spendibili’ nel lavoro. Essere ‘spendibili’ significa essere ‘comprabili’, cioè diventare noi stessi ‘risorsa’ da ‘esaurire’, questo vuol dire risorsa, e purtroppo abbiamo deciso che le persone sono risorse umane”.
Per D’Avenia, invece, essere felici significa avere rapporti profondi con il mondo esterno: “Inostri ricordi felici – riflette- riguardano ciò che abbiamo creato con le nostre attitudini e le relazioni significative che abbiamo stretto. Se non so chi sono e con chi sono, le competenze sono solo vestiti su un manichino”.
“L’orientamento dovrebbe servire a scoprire i propri talenti per poi farli fiorire a beneficio degli altri nel tempo, grazie a terreni e giardinieri scelti perché adeguati a quelle caratteristiche, come le magnolie che richiamano passanti a sostare e bambini a giocare. Non conoscendo se stessi (cioè non essendo ri-conosciuti da chi li educa) i ragazzi si affidano a impressioni fugaci, scelte di maggioranza, aspettative familiari. Non si può non scegliere ma se non si ha l’energia e il coraggio di una vocazione, si sceglie ciò che sembra più certo, comodo, sicuro, rinunciando così alla propria specifica bellezza. Per questo molti ragazzi si ritrovano in vite non loro, con il senso di colpa e l’ansia tipici di una cultura della perfezione e della performance”.
“Allo scopo di orientare nella scuola è stata introdotta quest’anno la figura del docente tutor. È un primo passo, ma una formazione di 20 ore online non può bastare al paziente lavoro educativo necessario a scoprire l’unicità di un ragazzo”. L’autore fa riferimento alla lettura di un’intervista calciatore Rafa Leão sull’infanzia vissuta in un quartiere popolare di Lisbona e riporta le parole di Leão: “Il pallone sempre fra i piedi, la maggior parte dei suoi abitanti sono immigrati, in molti dall’Africa. Non un posto facile. Lì di buono c’era il pallone, ci giocavo dalla mattina alla sera. Interi pomeriggi nel parcheggio del supermercato. Spesso erano carte appallottolate o una lattina o una bottiglia usate come palla, mentre un’auto era la porta. Il mio modo di giocare è ancora quello, un calcio di strada, fatto di finte, scatti, furbizia. Dio mi ha dato un dono e io gli sono grato. Il mio lavoro è giocare a pallone, ho coronato il mio sogno di bambino. Come potrei non sorridere? Amo i gol belli. Il calcio oggi è solo statistiche, cifre. E a me non piace. Il calcio è magia, gioia. Mi fa arrabbiare che la gente pensi solo ai numeri. Io non sono così. Perché la gente deve divertirsi. E allora mi devo divertire anche io. Sono per la bellezza”. D’Avenia sottolinea che senza il sostegno della famiglia e la guida dei primi maestri, il talento del calciatore sarebbe andato sprecato.
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