Mi rivolgo ai miei colleghi, ai docenti, e ai dirigenti, perché voglio attivare un confronto. Difficile ma necessario. Su due temi: l’alternanza scuola lavoro e la formazione e selezione dei docenti.
Il gancio sono le dichiarazioni, confuse, che leggo da più parti e che sento dal ministro. Parto da una premessa: io difendo strenuamente l’alternanza scuola-lavoro, come difendo strenuamente la riforma della formazione e selezione dei docenti appena approvata, sono del resto tra coloro che vi ha contribuito attivamente e che ne ha scritto da tempo e da anni negli stessi termini in cui ne scrivo oggi.
Nei due paragrafi che seguono approfondisco i motivi, ma per chi vuole avere il succo e non gli va di leggersi tutto eccolo. Il concetto base è che Bussetti e la Lega sono fermi a Gentile (ma Bussetti non è come Gentile se no si monta la testa). È così anche per il M5S?
Se lo sono lo dicano. La Scuola della democrazia è da tutt’altra parte.
Per la formazione dei docenti mi pare di capire che lui segua la tesi gentiliana dei saperi teorici contro quelli pratici a fronte di un mondo che ha da decenni operato una sintesi riassunta nel termine competenze professionali (anche se poi le ritira fuori), mi pare di capire che sia per le spese di formazione a carico degli aspiranti docenti, di un sistema in cui l’Università che non parla con la Scuola e viceversa, di un sistema in cui l’immissione in ruolo sia segmento separato dalla formazione e quindi inevitabile creazione di precariato.
Idem sull’alternanza Scuola Lavoro: la posizione appare confusa, non si comprende se vien promossa o condannata, o, peggio, viene promossa per alcuni percorsi e ridimensionata per altri. Ma se l’alternanza non è apprendistato ma diversa maturazione di competenze di base necessarie a tutti e tutte in che senso viene depotenziata in alcuni percorsi e promossa in altri?
A me sembra che il nuovo governo, in forma confusa e poco chiara si stia incamminando in percorsi passati già perdenti: separare Scuola e società, Scuola ed esperienza, separare i Saperi, e con essi la società, gerarchizzandoli, conduce dritto dritto a classismo passatista. Il tutto poi a danno della qualificazione dei docenti e della qualità di apprendimento degli studenti.
È questo il cambiamento auspicato dal governo? Cioè l’esatta riproposizione del passato remoto con tutti i suoi errori? Non solo in ordine concreto ma anche in termini ideali e di visione della Scuola. E dunque di società e di Paese.
Per non ha tempo si fermi qua, per chi ha tempo e voglia, ecco lo svolgimento.
Troppi equivoci sull’alternanza scuola-lavoro. Sia in passato che adesso. E negli equivoci si inserisce il demonio. Sul concetto di alternanza sì alternanza no si gioca, con semplici passaggi, la contrapposizione tra società chiusa e società aperta.
La prendo un po’ lontana ma i colleghi capiranno. Abbiamo tanti modelli e tante visioni di scuola, ma, sostanzialmente sono grosso modo due quelli che in Italia si sono sperimentati: uno, quello gentiliano, di netta separazione tra saperi teorici e saperi tecnico-pratici, separazione declinata in ulteriori e rigide suddivisioni dei saperi disciplinari, con una precisa gerarchia anche di valore a favore dei saperi teorici e a sfavore di quelli tecnici.
Il secondo è un sistema opposto, quello della democrazia, che annulla gerarchie e mette in campo non “ascensori” ma mobilità sociale, che assegna dignità alla singola persona e non alla classe. Che indica pari dignità a tutti i saperi , non solo, ma che introduce anche trasversalità, inclusione, contaminazione e maturazione dei saperi, come anche di qualità della persona, necessarie a renderlo autonomo sempre, a emanciparlo, attraverso l’esperienza, guidata con metodologie didattiche diverse per arrivare a maturare competenze.
Possiamo dare altri nomi, qualità, capacità, pippo, se competenze non ci piace, ma è un percorso che attraverso elaborazioni più ampie attraversa tutta la pedagogia del dopoguerra: l’emancipazione e la formazione della persona passa attraverso l’acquisizione di saperi e la maturazione di competenze e queste si maturano anche con esperienze. Come i colleghi sanno, comprendere un testo, scrivere bene, fare di conto, sono competenze. Sfido a dire che non servono. E sfido a dire che servano ad alcuni e ad altri no. E sfido a sostenere che percorsi tecnici, professionali o liceali abbiano gerarchie di valore e non solo differenze di attitudini e che a tutti gli allievi, indifferentemente, devono offrirsi uguali obiettivi di apprendimento riguardo le conoscenze e le competenze di base. Cioè anche lavorare in gruppo, navigare in rete in autonomia, riconoscere le fonti, avere doti di coordinamento, sviluppare comportamenti consapevoli di cittadinanza, sono competenze. Sfido nuovamente ad affermare che non servono. Sono competenze di base. Servono a tutti e a tutte. Affermare gerarchie tra teoria e pratica nei saperi significa rimettere in campo modelli sociali classisti, che la scuola della democrazia ha rifiutato in toto formalmente, nella Costituzione, che deve attuarsi sostanzialmente, chiarendo tali equivoci, ancora oggi presenti e declinandoli di conseguenza.
Che poi quello studente da grande diventerà Marchionne o Papa Francesco o un felice operaio lo deciderà da sé (vi prego, la retorica – fascista, ripeto, fascista – dell’ascensore sociale per cui un medico è migliore di un operaio, anche basta, anche basta, specie in un momento della Storia in cui l’operaio autonomo, specializzato, aggiornato, sarà più importante o tanto quanto, e solo in base alle sue qualità; la democrazia è tale quando è mobilità sociale non ascensore)
Usciamo dunque dai blocchi mentali e riprendiamoci il campo. Non c’entrano i liberisti, il lavoro sfruttato, non c’entra la politica ma è sicuramente un discorso “politico” in quanto conseguente a un’impostazione ideale che poi è pedagogica e che poi è didattica. Non c’entra nulla di tutto questo: è scuola. L’alternanza è scuola. E, tanto per collocare comunque le caselle al loro posto, compare in Marx, come risposta alle alienazioni, e compare in Gramsci, questo per dire come intorno oggi si leggano opinioni più confuse che persuase intorno a questo tema. Loro ne accennano quando parlano di Scuola. Scuola. Noi di cosa parliamo?
Concretamente: io la difendo. E’ sacrosanta. Come capite bene non è apprendistato, non è imparare un mestiere, ma è acquisire delle qualità, delle capacità, se non vogliamo chiamarle competenze, progettate all’interno di una programmazione scolastica da docenti consapevoli, attraverso esperienze svolte insieme a “enti” fuori dalla scuola, fuori dalla classe, in vista della formazione della persona e dunque del lavoro. Non è una bestemmia. Dove la devono sperimentare questa società aperta, interdisciplinare, inclusiva, trasversale, solidale, e tutto quello che andiamo giustamente auspicando da sempre? Nella classe? Certo, ma non solo. Dico di più: non devono “uscire” solo gli studenti, ma anche i docenti.
Quel modello lì: la classe chiusa col docente dietro la cattedra, con la sua disciplina e la predella, è esattamente la visualizzazione della società chiusa, idealista, leaderista, autoreferenziale da cui vogliamo uscire dalla fine del fascismo in poi. Quel modello lì non innalza i livelli di rendimento disciplinari. A prescindere dalle competenze. Sbaglia chi lo difende in nome della giusta difesa dell’innalzamento dei livelli di competenze di base degli italiani: è selettivo. Significa che non recupera gli ultimi, li perde per strada. Il modello di scuola democratica non nega i saperi, erra totalmente chi lo sostiene, mostra ignoranza culturale oltre che politica chi continua a ripeterlo anche da postazioni autorevoli.
Dunque, per tornare all’alternanza, la frase “poche ore al classico e molte di più al professionale”, è pericolosa per quel che presuppone, classismo, separazione e non ha compreso affatto il senso reale dell’alternanza perché, io ragazzo, in alternanza non vado a fare apprendistato; quando esco da scuola per un percorso ben progettato vado a fare scuola.
Dico sì alla proposta di molti docenti che pensano a “tante ore necessarie di alternanza a seconda di come quella scuola, quella classe, quei docenti, organizzano il bagaglio e il percorso didattico per la migliore formazione della persona”, in una logica coerente con l’autonomia scolastica, ma quelle esperienze devono esserci e i docenti ne devono comprendere il significato ideale oltre che pedagogico, didattico e concreto.
Volete dirmi che ogni scuola se le debba decidere da sé? Se le debba progettare e costruire da sé? Non solo posso concordare. Dico di più: concordo. Purché non sia l’alibi per non farla e rinchiudersi in Gentile. Purché non sia il discorso classista “al professionale sì e al classico no”.
E, se devo dirla tutta, se fosse figlia di un “disegno liberista”, ma abbiamo chiarito che nulla c’entra, io rispondo che se qualcuno mi chiedesse di scegliere tra Gentile e il mercato sia chiaro, non risponderei Gentile. Soprattutto oggi, soprattutto adesso.
La posizione di Bussetti è a dir poco confusa. A dir poco. Posso anche concedere ad alcuni che l’alternanza è stata spiegata male e applicata peggio soprattutto a monte, e lo concedo . Ma se il ministro dichiara: dimezzo l’alternanza al classico e la lascio intatta nei professionale il sottotitolo quello è: Gentile, e io non solo non ci sto, di più, non posso starci. E quella rigidità di cui, non a torto, si sono lamentate le scuole, rimane comunque intatta.
Lo stesso ragionamento possiamo trasferirlo al percorso di formazione e selezione dei docenti. Il percorso nuovo prevede la laurea, il concorso e poi si entra a scuola e dentro la scuola inizia il percorso triennale di “compresenza” di teoria e pratica, ma anche di Accademia e Scuola, su modello delle specializzazioni mediche (dunque non si entra in classe a 30 anni come erroneamente sostiene il ministro, si entra quando si vince il concorso, dunque anche a 25 anni).
Eliminare questo modello, su cui si lavora almeno da 40 anni e sempre con le stesse premesse di cui sopra – maggiore qualità, certezza, integrazione dei saperi e delle competenze, scuola della democrazia- significa ricostruire il compartimento stagno: la ricerca educativa di qua e la scuola di là, la formazione teorica di qua e le esperienze di là. La gerarchia dei saperi.
La proposta del ministro di inserire il tirocinio nei percorsi di laurea non va incontro alle esigenze di maggiore qualificazione della professione, anche perché operativamente poco chiaro: cosa vuol dire? Vogliamo vincolare gli studenti universitari a un unico percorso dentro l’Università? Restringere loro il campo? Immaginare un unico percorso universitario, “la facoltà per diventare docente”, apre a troppe incognite e a nessun vantaggio. Chi si iscrive in ingegneria, in architettura, in economia, se poi vuole insegnare cosa fa? E le discipline professionalizzanti e i tirocini non tolgono tempo allo studio della disciplina che si andrà a insegnare? E nemmeno vedo il vantaggio del presunto accorciamento dei tempi per arrivare in aula: col nuovo percorso, ripeto, si arriva in classe vinto il concorso, anche a 24 anni, e si entra in ruolo in tre anni. Il modello che ci vuole riconsegnare il ministro rimette in piedi le gae e i decenni di precariato, inevitabilmente.
Quando il sistema appena approvato prevede di eliminare il meccanismo “abilitazione a pagamento dopo la laurea e poi anni di graduatorie” e pone come unico step per entrare a scuola il concorso, come da mandato costituzionale, su numeri certi definiti dal fabbisogno, senza graduatorie, senza abilitazione, ma con una qualificazione di tre anni dentro la scuola, dopo aver vinto il concorso, lavorando ed essendo pagati, legando scuola e ricerca educativa in modo concreto e dichiarato intorno all’esperienza del formare i docenti. Come accade nei sistemi d’istruzione migliori.
A chi vogliamo lisciare il pelo? Spero non all’Accademia degli Orticelli che vive di compartimenti stagni.
La scuola deve offrire la maggiore qualità dei docenti per gli alunni, con un percorso certo, chiaro, qualificato, di acquisizione di conoscenze disciplinari, adeguate, approfondite e maturate in 5 anni, dunque nessuna deroga dalla formazione disciplinare necessaria, e di competenze professionali e integrazione di teoria e pratica per maturarle a cavallo tra scuola e università, dopo la laurea. Chi dice no nega questa qualità, anche in nome di tutto quello che ho detto sopra, mantenere chiusi e separati mondi che devono invece unirsi. Ecco perché difendo la necessità che tali percorsi di qualificazione e certezza siano difesi. Ecco perché credo nei concorsi e nelle lauree anche per le maestre. Tenendo presente anche che meno qualità nel percorso formativo dei docenti vuol dire anche meno riconoscimento sociale e meno salario. Entrambe battaglie che vanno fatte. Ti chiedo poco ti pago poco è stato il refrain sui docenti in passato, non possiamo permetterlo.
Va difesa anche l’idea che chi arriva in cattedra debba avere almeno la laurea e un percorso chiaro e certo, definito da fabbisogni e non dagli opportunismi politici del momento, perché questa è stata la storia brutta degli ultimi 40 anni, che di fatto, impelagata in tecnicismi intorno alle assunzioni che poi servivano a salvaguardare conservatorismi, ha limitato o ha offuscato il dibattito interno ed esterno necessario sulla scuola, sul suo mandato nel disegno sociale e culturale collettivo, sulla sua necessaria evoluzione.
Oggi quel dibattito va fatto, in modo chiaro e aperto, ovunque, con scienza e coscienza, senza approssimazione o “vanverismi”, senza alibi o chiusure mentali, perché la domanda, ripeto, è: vogliamo una scuola che sia e disegni una società aperta o vogliamo una scuola che sia e disegni una società chiusa? Il sì e il no si sostanziano in azioni precise. Mi pare che le azioni che mette in campo Bussetti siano perfettamente in linea con l’idea di società chiusa. Noi docenti possiamo dire sì o no, liberamente. Ma dobbiamo dare un nome e un cognome alle cose.
Una scuola che non teme contaminazioni, con il “fuori”, con il lavoro, con le culture, con le innovazioni, che non teme le messe in discussione perché è forte e sicura, o una scuola che si chiude per difendere un tran tran professionale che ormai è più gabbia che privilegio? E che siamo? Nella cultura dei dazi? La cultura non ha muri e non ha dazi.
L’idea di un docente chiuso in classe, dopo che è stato per cinque anni rigidamente formato in altre classi, disciplinariamente separate, inquadrato in un modello rigido a insegnare la sua disciplina, con una metodologia solo teorica, trasmissiva e solitaria, al di là dei pii desideri “insegno a vivere, insegno a stare insieme, insegno a maturare la passione per il sapere, la collaborazione, insegno la cooperazione” (tra parentesi tutte qualità, comportamenti e competenze) è un modello che in realtà insegna altro perché interpreta altro: autoreferenzialità, esclusione, selezione, individualismo.
E, vista dalla nostra prospettiva, di noi docenti, se lo facciamo per 40 anni, di stare in classe da soli col registro, gli alunni, il quadro orario e la materia insegnata, per quanta passione e amore possiamo avere per la disciplina e gli alunni, è un’idea che atterrisce e fa impazzire. E infatti impazziamo.
Mi piacerebbe discuterne, anche animatamente, accetto confronto ma non veti. Lo dobbiamo agli studenti, al nuovo esercito di laureati entusiasti che vogliono intraprendere il mestiere di docente, ma lo dobbiamo a noi stessi e al paese.
Fin qui ho scritto da docente, adesso scrivo da dirigente di partito: mi piacerebbe discuterne, anche animatamente, mi piacerebbe che ci coinvolgessimo, in un confronto orizzontale e necessario tra politica e scuola, ma non solo, perché sono anche questioni sindacali, sono anche questioni culturali, sono anche questioni sociali; che sia però confronto vero, culturale e di visione e non battaglia di veti
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