Il problema dell’apprendistato sta nel fatto che in Italia, dice l’esperto, non ci sono strumenti per valorizzare la formazione professionale e l’alternanza scuola lavoro fin dai primi anni dell’istruzione secondaria, come invece accade in Germania.
Secondo Bonardo l’apprendistato conviene alle imprese, “perché consente un risparmio sia in termini contributivi sia retributivi, grazie alla possibilità di “sottoinquadrare” il lavoratore di 2 livelli per i primi tre anni”, ma “il 33,3 per cento delle imprese che non hanno utilizzato l’apprendistato indicavano fra i motivi principali l’eccessiva complessità dal punto di vista normativo”.
Ciononostante, “da quando il testo unico sull’apprendistato voluto dall’allora ministro Sacconi ha trasferito la piena titolarità della formazione dalle regioni alle aziende il numero di contratti di apprendistato attivi in Italia è di circa 600 mila: ogni anno ne vengono attivati 200 mila e ne vanno a scadenza altrettanti, perché la durata media è di tre anni. Ma nel 2011 i contratti sono stati 290 mila e nel primo semestre del 2012 si è registrato un ulteriore aumento del 10 per cento circa nei nuovi contratti siglati (circa 160 mila). Rimane ancora molto da fare per quanto riguarda l’apprendistato di primo livello a cui tutti si riferiscono quando dicono che in Germania l’apprendistato funziona bene. L’apprendistato di primo livello lì è pensato in funzione della formazione professionale tramite percorsi di alternanza tra scuola e lavoro. Ma in Germania è il sistema scolastico ad essere diverso.”
La presunta superiorità di questo sistema starebbe, sempre secondo l’esperto del Gi.Group, nel fatto che quello tedesco “E’ un sistema duale che prevede fin dopo le scuole elementari due distinti percorsi per le medie: ci sono sia la scuola che prepara al liceo, sia la scuola per l’avviamento professionale, proprio come era da noi, in Italia, negli anni ’60. L’apprendistato di primo livello è previsto per chi sceglie di seguire questo secondo percorso. Da noi, invece, se ne parla da anni ma di “fatti” concreti non se ne sono visti finora.” Relativamente invece al valore degli stage, “essi vanno bene come momenti di alternanza tra studio e lavoro durante il periodo di formazione, sia in ambito delle superiori sia universitario, e hanno lo scopo di non rinviare l’incontro con il mondo del lavoro solo dopo il compimento di 25 anni. Anche gli stage post laurea della durata massima di sei mesi rispondono a una logica di orientamento, nella speranza che ad essi faccia seguito un contratto di apprendistato professionalizzante, che deve diventare il vero contratto di inserimento lavorativo.”
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