Continua far discutere la Nota operativa del ministero dell’Istruzione n. 662 che nel dare seguito al Dpcm dello scorso 2 marzo ha specificato che anche nelle zone rosse gli alunni disabili e con bisogni educativi speciali avranno comunque la possibilità di attuare l’attività in presenza. A destare forti perplessità è la richiesta del ministero di “rendere effettivo il principio di inclusione” coinvolgendo “nelle attività in presenza anche altri alunni appartenenti alla stessa sezione o gruppo classe – secondo metodi e strumenti autonomamente stabiliti e che ne consentano la completa rotazione in un tempo definito – con i quali gli studenti BES possano continuare a sperimentare l’adeguata relazione nel gruppo dei pari, in costante rapporto educativo con il personale docente e non docente presente a scuola”.
Ma in quante scuole si attua questo modello prefigurato dai dirigenti del dicastero di Viale Trastevere? In pochi, anzi in pochissime.
A sottolinearlo sono anche le associazioni dei disabili, che si sono fatte sentire con una lettera aperta indirizzata al ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, e al ministro per le Disabilità, Erika Stefani: il Coordinamento Italiano Insegnanti di Sostegno, Uniti per l’Autismo, Autismo Abruzzo Onlus, Associazione Prader Willi Lombardia, A.S.S.I. Gulliver, Associazione Sindrome di Sotos Italia, si chiedono “quale tipo di scuola si stia promuovendo, nel momento in cui, in netto contrasto con le stesse indicazioni pedagogico-culturali, si agisce per ‘etichette e acronimi’, indicando soluzioni che attestano la nostra incapacità di crescere, fra diversi, nello stesso contesto sociale e insistendo nel separare ‘i capaci dai meno capaci'”.
Nella lettera le associazioni si appellano ai vertici dell’Istruzione e della Disabilità perché “a fronte di accertate condizioni di sicurezza, peraltro possibili in contesti che accolgono pochi alunni, nel pieno rispetto delle regole antiCovid, si diano indicazioni univoche alle Istituzioni scolastiche italiane rispetto alla frequenza, per ciascuna classe, di un piccolo gruppo eterogeneo di alunni, fra cui anche l’alunno con disabilità, con la presenza, secondo il proprio orario, di tutti i docenti della classe, ovvero delle figure professionali coinvolte”.
L’attuale indicazione, invece, di fatto lascia l’ultima parola agli organi collegiali. I quali, evidentemente, quando c’è da decidere come organizzare la didattica in presenza per accogliere gli alunni disabili, non sempre sostengono l’alunno disabile o bes con la presenza dei docenti curricolari e di disciplina.
Il risultato di questa situazione è che in una percentuale importante gli alunni con disabilità rimangono a scuola senza compagni di classe (tutti impegnati con la DaD).
In altri casi è giunta anche la notizia di alunni con disabilità o bes che frequentano la scuola con il solo docente di sostegno.
Fortunatamente, pochissimi addetti ai lavori hanno raccontato di un numero maggiore di alunni disabili concentrati nella stessa classe, scongiurando quasi del tutto quindi la costituzione delle “famose” classi “differenziali’ precedenti alla riforma sull’integrazione della metà degli anni Settanta.
“Riteniamo grave – dicono le associazioni – quanto si sta verificando nelle nostre scuole e lesivo dei diritti in capo a ciascun alunno che, in quanto cittadino, ha il diritto di imparare a crescere e di apprendere insieme ai coetanei in contesti inclusivi aperti e non all’interno di ‘classi ghetto'”.
Le colpe, secondo le associazioni, sarebbero però anche delle leggi e norme sbagliate. “A fronte di una normativa che prescrive la frequenza degli alunni con disabilità ‘nelle classi comuni’, oggi assistiamo a un rincorrersi di indicazioni da parte di provvedimenti governativi e persino ministeriali, fino a quelli territoriali e delle singole istituzioni scolastiche, che rimandano a forme di organizzazione, peraltro definite inclusive, che reintroducono realtà cancellate dal nostro sistema scolastico da quasi 50 anni, che ricordano le abolite ‘classi differenziali'”.
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