Attualità

Alunni disabili: aumento abnorme del disturbo oppositivo-provocatorio e dell’autismo [INTERVISTA]

Sono stati resi noti nei giorni scorsi i dati sugli alunni con disabilità che frequentano le scuole italiane, dall’infanzia alla secondaria di secondo grado.
Li commentiamo con Raffaele Iosa, già dirigente tecnico che, per molti anni, è stato il responsabile dell’Osservatorio nazionale sull’handicap come all’epoca si chiamava.

Partiamo da una prima osservazione: il rapporto di quest’anno contiene novità importanti?

Direi di no, ad eccezione del fatto che conferma l’aumento delle certificazioni che però è una specie di standard costante; da 15 anni a questa parte il numero dei ragazzi con disabilità aumenta dal 6 al 7% all’anno. E questo è un dato incredibile soprattutto se si tiene conto del fatto che nello stesso periodo si è verificato un vero e proprio crollo della popolazione scolastica. In sostanza dal 1999 ad oggi il numero delle certificazioni è quasi quadruplicato.

E’ incredibile!

Sì, ma non basta perché a questi numeri dobbiamo sommare almeno 300mila alunni con DSA e altrettanti con BES. Insomma, abbiamo quasi un milione di alunni che hanno un “pezzo di carta” nel quale si dice che hanno un problema o una difficoltà.

Una delle disabilità che più sta aumentando è quella che va sotto il nome di “disturbo oppositivo provocatorio”. Come mai accade questo, a suo parere?

I motivi sono molteplici; intanto c’è in generale una tendenza da parte delle famiglie a chiedere la certificazione con maggiore frequenza rispetto al passato. Sembra che spesso i genitori pensino che “è meglio un po’ malato che bocciato”: si tratta cioè di una forma di protezione.
E poi forse questo disturbo è legato, più di altri, a contesti ambientali e familiari difficili. Si ha l’impressione che siamo di fronte alla comprensibile reazione di bambini e bambine che non accettano una realtà che non va, che non funziona.

Anche l’autismo è in forte aumento

Sì, ma si tratta di un fenomeno del tutto diverso.
Quello dell’autismo è un mondo complesso di difficile da decifrare.
Prendiamo ad esempio qualche dato di contorno: 25 anni le diagnosi di autismo quasi non c’erano, avevamo una certificazione ogni 1000 bambini, oggi si parla di una ogni 77. E’ un numero incredibile che si spiega anche con il fatto che il modello che oggi si usa, il DSM-5 controllato soprattutto dalla neuropsichiatria americana, porta inevitabilmente ad un incremento delle certificazioni.
Una recente ricerca italiana di un anno fa parla degli autistici maggiorenni cioè noi ormai cominciamo ad avere un certo numero di maggiorenni e ci di dice più del 50% è ricoverato in strutture protette, un altro 25% ha un lavoro mentre del restante 25% non si sa nulla.
Mi chiedo ma non è possibile che questo 25% non ci sia più perché non c’è più la diagnosi o forse perché la diagnosi fatta da bambini non era quella giusta?

Le leggo un passaggio ripreso dal comunicato Istat. Più di un quarto degli studenti (28%) ha un problema di autonomia, legato alla difficoltà nello spostarsi all’interno dell’edificio, nel mangiare, nell’andare in bagno o nel comunicare; la difficoltà più diffusa riguarda la comunicazione (21%) o l’andare in bagno (19%); meno frequenti appaiono le difficoltà nello spostarsi o nel mangiare (rispettivamente 13% e 8%). Tra gli studenti con problemi di autonomia, uno su cinque non è in grado di svolgere autonomamente nessuna delle quattro attività.
Si tratta di dati che spiegano anche un altro fenomeno: l’enorme aumento del personale specializzato che interviene nel settore dell’assistenza.

In questo momento abbiamo quasi 100mila educatori che si aggiungono agli oltre 200mila insegnanti di sostegno. Educatori che nel 1999 erano poche migliaia, 7-8 in tutto.
Sono pagati dagli enti locali e gestiti da cooperative, sono figure professionali con laurea triennale, ma con stipendi da fame e contribuiscono a quel fenomeno drammatico noto con l’espressione “copertura totale”: famiglie e scuola, cioè chiedono che l’alunno con disabilità abbiano un “guardiano” a fianco per tutto il tempo.
Mi sembra un segnale di una scuola che non funziona più.

Pochi giorni fa, Dario Ianes, uno dei massimi esperti nazionali di problemi di inclusione, ha rilasciato una intervista a Il riformista che ha così intitolato: “ll pedagogista Ianes: abolire gli insegnanti di sostegno, l’inclusione fatta male sta scoraggiando i docenti”. Cosa ne dice?

Certamente Dario Ianes fa riferimento al progetto al quale anch’io sto dando una mano; si tratta del progetto della cattedra inclusiva finalizzato ad andare oltre alla singola figura del sostegno e pensare a pratiche di inclusione affidate a tutti i docenti della classe, adeguatamente formati.

Purtroppo nelle scuole – non in molte per fortuna – accadono ancora cose poco commendevoli; abbiamo notizia di scuole che hanno l’ “aula H”. Il fatto è abbastanza drammatico, soprattutto se si pensa che sono passati 50 anni dal famoso “documento Falcucci”.

A distanza di mezzo secolo alcune cose sono certamente peggiorate.
Le aule H sono un effetto dell’ultima fase, di questi ultimi 20 anni e cioè da quanto è iniziata a prevalere una certa idea di curricolo e di programma scolastico. Molti docenti difendono anche questa modalità sostenendo che in questo modo i ragazzini con disabilità hanno a disposizione un luo tranquillo e silenzioso dove posson fare cose che in classe non riescono a fare. Ma questo fa venir meno l’idea di classe come comunità che invece era al centro del “documento Falcucci”.
Non dimentichiamo che la senatrice Falcucci era solita dire: “Noi vogliamo inserire i bambini handicappati nelle classi normali non perché siamo buoni ma perché la loro presenza può servire a cambiare la scuola per tutti”.
L’aula H è un errore è la negazione dell’idea di comunità, ed è un errore anche nei confronti dell’insegnante di sostegno che perde l’opportunità di lavorare a fianco degli altri docenti.

Eppure di comunità si parla persino nel contratto di lavoro, anche se a me sembra sbagliato perché si trasforma un concetto pedagogico in un aspetto quasi amministrativo e burocratico; è d’accordo?

Sì, a me sembra che in questo ci sia molta retorica, mi sembra una finzione difensiva. Dobbiamo onestamente ammettere che spesso la comunità educante o che si autoproclama tale è un imbroglio; in una scuola fare comunità dovrebbe essere un dato naturale, non contrattuale.

Un’ultima domanda: come procede il progetto di cattedra inclusiva al quale state lavorando da più di un anno?

Direi bene, anche se purtroppo l’idea non gode del favore dei sindacati e neppure della politica. Però stanno fiorendo ottime esperienze e tante sperimentazioni in molte scuole. Facendo formazione e incontrando docenti e dirigenti scolastici scopro ogni giorno che ci sono scuole che hanno realizzano il progetto della cattedra inclusiva anche senza chiamarlo in questo modo. Ci sono davvero tante scuole in cui gli insegnanti di sostegno e quelli di cattedra si organizzano, si mescolano, svolgono attività in comune. In molti istituti alberghieri, per esempio ho avuto modo di conoscere pratiche di inclusività formidabili.

Ci sono regioni o province in cui la pratica della cattedra inclusiva è più diffusa?

Potrei citare esempi della Toscana, ma anche dell’Abruzzo o del Molise; ma mi dicono che ci sono esperienze interessanti anche altrove. Parafrasando Mario Lodi, possiamo dire che c’è speranza se questo accade in tante scuole d’Italia.

Reginaldo Palermo

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