L’ultimo report ministeriale sui “numeri” della scuola italiana all’apertura del nuovo anno scolastico ci ricorda che quello della presenza degli alunni con cittadinanza non italiana è un tema che non deve essere sottovalutato.
Alcuni recenti episodi di cronaca mostrano anche che uno dei nodi più difficili da affrontare riguarda anche la “percezione sociale” del problema. Talora può essere difficile evitare che le famiglie si contrappongano alla scuola nelle scelte educative e organizzative.
In questo inizio d’anno, in più di una situazione, si sono avute proteste delle famiglie contro la formazione delle classi; le proteste hanno riguardato sia le famiglie italiane sia quelle straniere: le prime contestano l’eccessiva presenza di “stranieri” (“In questo modo il programma viene rallentato”), mentre le altre rilevano che la “fuga” degli italiani dalle classi troppo multietniche rappresenti di fatto una forma di razzismo o comunque di intolleranza.
Certamente, il problema non di facile soluzione soprattutto in quei casi in cui la presenza sul territorio di elevate percentuali di alunni con cittadinanza non italiana rende di fatto impossibile formare classi con un giusto mix di diverse lingue ed etnie.
E dunque non esistono ricette semplici (cosa peraltro impossibile vista la complessità del problema).
Non sarebbe male, però, andare a rileggere una vecchia circolare ministeriale, la 205 del 1990, emanata quando la percentuale di alunni stranieri nelle nostre scuole era ancora molto ridotta.
Già un terzo di secolo fa il Ministero sottolineava la necessità di attivare nelle scuole programmi di educazione interculturale “quale condizione strutturale della società multiculturale”.
“Il compito educativo, in questo tipo di società – si legge nella circolare – assume il carattere specifico di mediazione fra le diverse culture di cui sono portatori gli alunni: mediazione non riduttiva degli apporti culturali diversi, bensì animatrice di un continuo, produttivo confronto fra differenti modelli”.
E ancora: “L’educazione interculturale avvalora il significato di democrazia, considerato che la ‘diversità culturale’ va pensata quale risorsa positiva per i complessi processi di crescita della società e delle persone. Pertanto l’obiettivo primario dell’educazione interculturale si delinea come promozione delle capacità di convivenza costruttiva in un tessuto culturale e sociale multiforme”.
Si noti come in queste righe non si usino parole come “accettazione”, “tolleranza” o “integrazione”; piuttosto si fa riferimento alla “convivenza” che – si legge poco più avanti – “comporta non solo l’accettazione ed il rispetto del diverso, ma anche il riconoscimento della sua identità culturale, nella quotidiana ricerca di dialogo, di comprensione e di collaborazione, in una prospettiva di reciproco arricchimento”.
La circolare potrebbe essere utilmente letta soprattutto da chi fatica a capire che il mondo in cui viviamo oggi è ormai irrimediabilmente diverso a quello di mezzo secolo fa e necessita quindi di un approccio culturale nuovo.
“L’educazione interculturale – spiega ancora il documento – pur attivando un processo di acculturazione, valorizza le diverse culture di appartenenza. Compito assai impegnativo, perché la pur necessaria acculturazione non può essere ancorata a pregiudizi etnocentrici. I modelli della ‘cultura occidentale’, ad esempio, non possono essere ritenuti come valori paradigmatici e perciò non debbono essere proposti agli alunni come fattori di conformizzazione”.
Per concludere che “ogni intervento che si colloca su questo piano tende così, anche in assenza di alunni stranieri e nella trattazione delle varie discipline, a prevenire il formarsi di stereotipi e pregiudizi nei confronti di persone e culture ed a superare ogni forma di visione etnocentrica, realizzando un’azione educativa che sostanzia i diritti umani attraverso la comprensione e la cooperazione fra i popoli nella comune aspirazione allo sviluppo e alla pace”.
Ci sembra questa una chiave di lettura assolutamente chiara e lineare e non si comprende per quale motivo non sia stata ripresa, per esempio, dalle stesse Linee Guida per l’educazione civica.