Mentre si susseguono numerosi i fatti di cronaca che stigmatizzano atti indisciplinati di vari studenti della Penisola, non mancano purtroppo le “ricette” di soluzioni semplicistiche al problema. Nemmeno la scuola è indenne dal costume italiano di trasformare gli accadimenti in “fenomeni”, da curare con pillole di saggezza spiccia o direttamente con il Codice Penale: c’è, infatti, chi invoca un richiamo al contratto dei docenti per tutelarli da ragazzi bulli e genitori violenti. Uno scenario da Far West. D’altronde, che andare a scuola fosse una missione da eroi e che far lezione domandasse, oltre ad una grande competenza, una buona dose di coraggio, era ormai risaputo. Non ci sono soluzioni miracolistiche.
Innanzitutto, non occorre affatto invocare nuove leggi (come se il Legislatore non avesse nulla da fare e occorresse a tutti i costi riempirgli l’agenda): sarebbe sufficiente applicare quelle che già esistono. A che cosa serve riconoscere un diritto se poi non lo si garantisce? È una domanda che viene proposta dal 2010, senza ottenere alcuna risposta. Ricordiamo la sapienza dei Costituenti, coraggiosi davvero, se si considera che sono stati disposti a dare la vita e a non ricevere il vitalizio. All’art. 3 dei princìpi fondanti della Costituzione, essi scrivono: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio». È stato più volte dimostrato che i genitori, per esercitare la propria inderogabile responsabilità educativa, devono poterla esprimere liberamente. E la libertà implica una possibilità di scelta, che necessariamente –se non si vuol ricadere in quella contraddizione in termini che, per dirla con le parole di Aristotele, “ci rende tronchi”– domanda pluralismo educativo. Buona la scuola pubblica statale (cioè dallo Stato gestita e controllata), buona la scuola pubblica paritaria (quella scuola che dallo Stato non è gestita, ma controllata).
Ma l’Italia ignora questo elementare principio di diritto: in realtà, la famiglia è considerata dallo Stato “incapace di intendere e di volere”. Può scegliere, infatti, di ricoverare il nonno al San Raffaele pagando un ticket, ma non può scegliere di educare il figlio presso una buona scuola pubblica paritaria, la quale fa parte, come la pubblica statale, del Servizio Nazionale di Istruzione. I genitori, con il loro lavoro, non riescono a pagare e le tasse per la scuola pubblica statale e la retta che fa funzionare la scuola pubblica paritaria che vorrebbero. I poveri, insomma, devono pagare due volte per esercitare il loro diritto di libera scelta, nonostante la Costituzione reciti: «La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali (art. 33, comma 4)». In Italia il figlio dell’operaio e quello del portinaio non possono scegliere una buona scuola pubblica paritaria, mentre può farlo il figlio del deputato (anche del grillino, che in campagna elettorale era contro le paritarie, ma intanto vi accompagnava ogni giorno il pargolo, pagando una retta di € 3.500 annui. Perché, si badi bene, di queste scuole paritarie si vuol parlare, e non di quelle dalla retta over € 8.000, che fin dall’origine hanno scelto di tagliare in due la società e certo rimarranno). La famiglia povera, dunque, deve iscrivere il figlio alla scuola pubblica statale. Non ci resta che pensare che lo Stato italiano abbia applicato il secondo comma dell’art. 30: «Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti».
L’Italia è, in questo ambito, la più grave eccezione in Europa. Una libertà così osteggiata poteva forse non alimentare il processo di delegittimazione del ruolo dei genitori e, con loro, dei docenti? Una scuola che negli anni ha rifiutato la valutazione e la meritocrazia, una scuola preda dei sindacati, che l’hanno ridotta ad ammortizzatore sociale, poteva forse aspettarsi un esito differente? E oggi, pur di continuare a negare l’urgenza di garantire la libertà di scelta educativa ai genitori (assicurata invece, ad esempio, nella laica Francia), si stigmatizzano gli studenti come violenti, si rispolvera la notizia di reato e la pena, invocando una tutela per i docenti. Follia, ignoranza o –peggio– malafede?
Si ricorda che l’art. 3 della Costituzione recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (…)». Si ricorda inoltre che la Legge 62/2000 ha dichiarato “pubbliche” le scuole paritarie, equiparandole in tutto alle statali, esclusa –piccola svista!– la parte economica. Gli aggettivi “pubblico” e “statale” non sono sinonimi. Ciò che è “pubblico” non è necessariamente “statale”, cioè prescinde dal soggetto gestore. Il San Raffaele è “pubblico”, cioè serve a tutti e quindi riceve fondi pubblici, ma non è “statale” (per sua fortuna, direbbero i maligni). Il Parlamento Europeo ribadisce (risoluzione del 14 marzo 1984, art. 7): «La libertà di insegnamento e di istruzione comporta il diritto di aprire una scuola e svolgervi attività didattica. Tale libertà comprende inoltre diritto dei genitori di scegliere per i propri figli, tra diverse scuole equiparabili, una scuola in cui questi ricevano l’istruzione desiderata». E all’art. 9 si legge, dal punto di vista del docente: «Il diritto alla libertà d’insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti, all’adempimento dei loro obblighi in condizioni uguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti, senza discriminazione nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale». Affermazioni riproposte dallo stesso Parlamento UE con la risoluzione dell’ottobre 2014. Ma oggi lo Stato italiano non può erogare finanziamenti aggiuntivi per le scuole paritarie, perché il Welfare fa sempre più fatica a sostenere la spesa sociale. È necessario, invece, spendere meglio e di meno. Come?
La via maestra per assicurare una effettiva autonomia delle istituzioni scolastiche e una reale parità scolastica passa dalla riorganizzazione del finanziamento dell’intero Sistema Nazionale di Istruzione attraverso la definizione del costo standard di sostenibilità per allievo. Lo dimostra scientificamente –dati alla mano– il saggio Il diritto di apprendere. Nuove linee di investimento per un sistema integrato, ed. Giappichelli 2015, di Alfieri, Grumo, Parola, con la prefazione dell’on. Stefania Giannini. In pratica, dotando ogni alunno di un cachet da spendere nell’istituto che intende scegliere, si realizzerebbe finalmente il pluralismo educativo, dando così alle famiglie la possibilità di decidere fra una buona scuola pubblica statale e una buona scuola pubblica paritaria, a costo zero. Si attiverebbe, inoltre, una sana concorrenza tra le scuole pubbliche, statali e paritarie, mirata al miglioramento dell’offerta formativa. L’alternativa è quella dei finanziamenti a pioggia per fantomatici progetti, che rappresenta però il tracollo economico della scuola pubblica statale nonché l’impossibilità di garantire il pluralismo educativo offerto dalla pubblica paritaria.
Il fenomeno sociale odierno ci impone una riflessione non punitiva o di tutela, bensì di garanzia del diritto principe dei genitori, che è quello di esercitare liberamente la propria responsabilità educativa: solo da qui potrà scaturire la legittimazione di tutte le parti coinvolte. I sindacati, i politici, i cittadini sono disponibili ad una serietà di argomentazione su questo tema? Oppure ci stiamo avviando verso una campagna contro il bullismo minorile nei confronti del corpo docenti combattuta nel tribunale televisivo, con la conseguente punibilità del minore sotto i 14 anni e, a cascata, dei genitori? La conseguenza: sovraffollamento delle carceri e defezione della classe docente. Già anni fa si indicò il rischio della delegittimazione della comunità educante. È il rischio della scuola unica di regime. Che ci si augura non arrivi.
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