Analfabetismo religioso di massa: di chi è la colpa?

La riflessione di Carlo Troilo su Micromega di oggi (14 febbraio 2017) ammanta di una veste laica un’idea integralista e faziosa nei confronti di un pensiero grande e aperto come quello cattolico. Appare del tutto evidente quanto le argomentazioni ruotino attorno all’idea di un pensiero che esclude dall’orizzonte umano la dimensione religiosa/etica, avallando un’azione di scomunica pubblica e quindi difatto proponendo un’intolleranza religiosa.

Ma tutto ciò si mostra come una vecchia visione laicista che esclude il ruolo che “le tradizioni e le comunità religiose possono svolgere nella società civile”. Oggi, la visione e il pensiero progressista ci offre un quadro di Stato laico che favorisce la traduzione delle motivazioni laiche e religiose in un sereno e accogliente dibattito, fino al punto che il cittadino liberale possa comprendere le ragioni del cittadino religioso e viceversa.

Non mancano, infine, le motivazioni banali che vorrebbero una Chiesa grata e quindi succube a uno Stato benevolo. Lasciando ad altri le risposte sull’8 per mille e sull’ingerenza del Vaticano, ci soffermiamo sulla vexata questio dell’insegnamento della religione.

L’autore se ne faccia una ragione: il motivo per cui non viene attivata l’attività alternativa è perché tra le scelte successive all’avvalersi oppure no dell’insegnamento della religione cattolica, rimane ancora oggi la possibilità di “uscire da scuola”. È questo il vero motivo per cui i ragazzi non scelgono l’attività alternativa.

Quindi se i fautori del pensiero laico hanno a cuore la formazione dei nostri studenti, dovrebbero attivarsi per eliminare l’inutile “uscita da scuola”. Su questo ci troverebbero alleati certamente. Certamente l’attività alternativa dovrebbe avere la robustezza culturale dell’attuale insegnamento scolastico della religione cattolica.

Ricordo che l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione tra il2004 e il 2007 è avvenuta a seguito di una procedura concorsuale che ha selezionato il personale che poteva vantare una serie di requisiti di servizio e di titoli di livello universitario.

È anche il caso di ricordare che gli insegnanti di religione che hanno partecipato alla procedura concorsuale non hanno scavalcato nessun altro precario. Forse l’autore voleva riferirsi alle GAE e ai concorsi attivati in questi anni per altri insegnamenti, ma da entrambe gli insegnanti di religione sono stati esclusi; altri ne hanno usufruito.

Se abbiamo a cuore la formazione dei nostri studenti, non possiamo abbandonarli all’analfabetismo religioso. Si tratta di una questione culturale e sociale, perché ne va dell’educazione e della maturazione antropologica dei nostri ragazzi. Non si può non conoscere la storia della nostra tradizione religiosa e ignorare le basi di una cultura che fa parte del nostro patrimonio storico e umano.

È bene allora riconoscere il valore di tale insegnamento che, al pari delle altre discipline, offre ai nostri ragazzi le premesse per un’apertura più cosciente al dialogo e allo scambio, nel rispetto e nella valorizzazione delle differenti opzioni di vita.

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