Categorie: Didattica

Appello al ministro Giannini per insegnamento Clil in una disciplina non linguistica

L’associazione Diesse Lombardia rinnova la richiesta al Ministro di porre attenzione ai problemi legati all’attuazione, nel prossimo anno scolastico, di un insegnamento in lingua inglese di una disciplina non linguistica nelle classi quinte dei licei e dei tecnici, secondo quando previsto da DD.PP.RR. attuativi della Riforma della Scuola Secondaria di secondo grado nn. 88/2010 e 89/2010. Si tratta di un intervento particolarmente ‘pesante’ che deve misurarsi con problemi di natura diversa.

Facciamo presente che già le esperienze in atto nei licei linguistici sono di vario tipo e genere e spesso difficilmente catalogabili come insegnamento CLIL.

Innanzi tutto non possono essere ignorati alcuni problemi di natura organizzativa che rischiano di incidere pesantemente sulla riforma prevista. Tra questi:

1) I docenti di molte scuole non hanno le competenze linguistiche necessarie per l’insegnamento in lingua di dln (anche ora che sono state abbassate da C1 a B2). Nonostante l’impegno da ultimo profuso da parte degli USR, i docenti che stanno frequentando corsi di perfezionamento linguistico sono ancora pochi. Inoltre ci si chiede se le competenze linguistiche B2 possano considerarsi sufficienti per l’insegnamento di una disciplina in lingua straniera?

2) Un insegnamento CLIL necessita di conoscenze linguistiche specifiche e richiede modalità didattiche adeguate. A tutt’oggi però non sono ancora stati istituiti corsi CLIL da parte delle Università volti all’acquisizione della metodologia relativa da parte dei docenti che il prossimo anno dovranno insegnare nelle classi quinte dei licei e dei tecnici.

3) La situazione che si potrà creare il prossimo anno dovrà sciogliere nodi che potrebbero dar luogo anche a conteziosi. Tra questi:

la distribuzione dell’organico: i pochi docenti competenti dovranno essere “spalmati” sulle quinte a danno della continuità didattica?

l’esame di maturità: chi interrogherà le classi che hanno svolto una materia secondo la metodologia CLIL? Solo docenti interni?

4) inoltre la mancata organizzazione di un insegnamento CLIL non potrebbe essere occasione per azioni legali da parte dei genitori?

5) La maggioranza di questi problemi riguarda anche le scuole paritarie che sono tenute a rispettare quanto previsto dal DPR ma i cui insegnanti non hanno avuto la possibilità di acquisire il titolo necessario. Anche i docenti dei linguistici paritari non hanno potuto iscriversi ai corsi di metodologia organizzati lo scorso anno, perché formalmente aperti solo ai docenti delle scuole statali.

Oltre ai problemi organizzativi richiamati, la proposta CLIL è portatrice di una questione culturale ed educativa di grandissima rilevanza, di cui sino ad ora si è troppo poco discusso: l’impatto culturale e formativo che questa scelta ha sulla formazione degli allievi. Cambiare la lingua veicolare di un insegnamento, in particolare quando si tratta di insegnamenti umanistici o scientifici, non significa infatti proporre un nuovo costrutto semantico che inserisce i termini scelti in un contesto concettuale diverso. La traduzione di opere letterarie, e ancor più poetiche, è a sua volta produzione letteraria e poetica.

L’insegnante sarebbe quindi chiamato non solo ad acquisire il linguaggio in modo approfondito ma anche a ‘ricostruire’ il proprio pensiero. In particolare per quanto riguarda l’insegnamento di discipline scientifichesi negherebbe agli studenti la possibilità di un’approfondita comprensione degli strumenti concettuali,linguistici e metodologici, propri delle diverse scienze; questo risulterebbe molto grave nella fase conclusiva

del percorso di scuola secondaria di secondo grado in cui agli studenti è richiesto il raggiungimento di competenze specifiche di carattere logico-argomentativo.

Ciò comporta tre conseguenze, inevitabili nella grandissima generalità dei casi:

l’impoverimento della proposta da parte dell’insegnante che si troverebbe a far fronte

contemporaneamente al padroneggiamento di una terminologia e al ripensamento del senso che tali termini comunicheranno a soggetti, gli allievi, a loro volta impegnati alla semplice comprensione letterale dei termini proposti;

un possibile (e probabile) fraintendimento di quanto viene insegnato, anche se poi, in realtà, per

l’apprendimento molto probabilmente lo studente non farà riferimento alla lezione (in inglese) ma al libro di testo con cui stabilirà un rapporto che esclude l’insegnamento in classe;

– i due punti richiamati mettono in luce anche come l’insegnamento CLIL, così come proposto dalla legge, comporterà la grande difficoltà a sviluppare in classe un articolato confronto tra insegnanti e allievi e tra gli allievi stessi, a loro volta condizionati da un possesso dello strumento linguistico in genere non adeguato a questo tipo di comunicazione, e non sostenuto dalle modalità di insegnamento dell’inglese

attualmente in uso nella scuola italiana.

In questa situazione ci sembra ragionevole:

1) Lasciare alle scuole – nella loro autonomia e quindi nella responsabilità di una scelta formativa fatta in base a ragioni culturali e di presenza delle risorse umane necessarie – la scelta di come introdurre l’uso della lingua inglese nelle materie non linguistiche (nei paesi europei l’insegnamento CLIL è scelto dalle scuole e non imposto uniformemente a tutte).

2) Sostenere nei prossimi tre anni un programma di formazione nelle competenze linguistiche per i docenti e, parallelamente, di ripensamento dell’insegnamento della lingua impartito.

3) Assegnare a università, associazioni riconosciute come enti formatori il compito di formare i docenti dal punto di vista metodologico, mettendo a confronto le diverse esperienze di insegnamento già presenti in alcune scuole.

In sintesi l’associazione, in sintonia con quanto richiesto da tutti nell’incontro dell’8 maggio organizzato dal Miur, chiede che le norme attuali per l’insegnamento di una disciplina in lingua inglese venga modificato profondamente, a partire da esperienze più diffuse e da una riflessione che si confronti con i problemi culturali che questo cambiamento comporta. Accanto a ciò che si guadagnerà deve essere chiaro anche che

cosa si perderà: solo così sarà possibile prendere decisioni che non si risolvano in un ulteriore impoverimento delle capacità della nostra scuola di sostenere la crescita delle giovani generazioni.

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