Didattica

Apprendere e ricordare non sono la stessa cosa: teniamone conto durante l’interrogazione

Niente da fare. Non c’è verso. Maria e Carlo fanno scena muta durante la verifica orale. Non ricordano nulla. Però, Maria ha studiato effettivamente, mentre Carlo no. Se dovessimo stare a quanto ricordano (zero), potremmo dire che nessuno dei due ha appreso comunque alcunché: Maria pur avendo studiato (evidentemente male), Carlo per non aver studiato.

Apprendere e ricordare però non sono sinonimi. E il ricordo non è la più corretta misura dell’apprendimento. L’apprendimento è identificabile con un processo di acquisizione relativamente stabile di nuove informazioni, con conseguente modificazione delle reti neuronali e delle risposte comportamentali del soggetto. Chi ha appreso un determinato contenuto si comporta diversamente da chi non l’ha appreso, reagisce diversamente (rispetto a prima) agli stimoli corrispondenti, al di là del fatto che sia in grado o meno di ricordare quel contenuto.

Quindi, se ha studiato, qualcosa Maria ha comunque appreso. Ma quanto ha appreso e da cosa possiamo stabilirlo? Un modo per verificare il “quanto” dell’apprendimento avvenuto è quello di valutare il tasso di ritenzione del contenuto, secondo le indicazioni che lo psicologo Hermann Ebbinghaus ha fornito nei suoi studi sull’oblio già nella seconda metà dell’Ottocento. Se diamo ad un gruppo di persone una lista di termini da imparare (poniamo, una quarantina), dopo un’ora quasi tutti riescono magari a ricordare l’intera lista senza errori. A distanza di quindici giorni, però, le cose cambiano drasticamente. L’effetto labilità, in cui si esprime spesso l’oblio, determina un drastico abbassamento delle informazioni ricordate: chi ne ricorda sei o sette, chi tre, chi nessuna.

Verrebbe da pensare che chi non ricorda nessun termine (o ne ricorda al massimo uno) abbia un apprendimento della lista paragonabile a chi non ci ha mai lavorato. Da dove si dovrebbe vedere allora che un certo apprendimento invece c’è stato? Basta fare una semplice prova: chiediamo al gruppo che aveva lavorato quindici giorni prima sulla lista di lavorarci nuovamente e di reimpararla a memoria.

Risultato? Il gruppo ci metterebbe molto meno tempo a reimparare efficacemente la stessa lista rispetto alla prima volta: lo farebbe magari in solo mezzora o forse anche in meno tempo. Bene, l’apprendimento precedente “è fotografato” dalla differenza di tempo (quella trentina di minuti) risparmiato nella fase di ri-apprendimento. 

Un apprendimento evidentemente nascosto e adesso portato miracolosamente allo scoperto. E’ la prova che qualcosa in memoria era rimasto. L’oblio quindi non ha cancellato l’apprendimento. Semplicemente, lo ha reso meno visibile (e fruibile in tante occasioni!).

Una buona notizia per studenti e insegnanti? Sì, perché dimostra che, anche nel malaugurato caso che il processo di studio non sia stato condotto molto bene e si ricordi molto poco (o niente), nulla è comunque più come prima. Qualcosa nella mente dello studente è in ogni caso (e irreversibilmente) cambiato, in modo strutturale, anche se non è facile accorgersene.

Ci si augura ovviamente che lo standard di preparazione degli studenti sia ben più alto e che non facciano scena muta durante le verifiche e, soprattutto, che sappiano usare, nelle situazioni della vita, quanto hanno appreso. Ma è giusto considerare che quanto è stato fatto a scuola o a casa, se è stato fatto con un minimo di metodo e di impegno, non è del tutto passato invano.

Il pensiero va alla definizione del comportamentista Burrhus Skinner: “Cultura è tutto ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto”.

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Giovanni Morello

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