Categorie: Attualità

Aprite quelle casse! C’è dentro la storia dell’evoluzione della Terra

Da 10 anni, nel Museo archeologico nazionale “Domenico Ridola” di Matera giace il fossile di balenottera risalente al Pleistocene più grande ritrovata al mondo.

Per le sue dimensioni, 25 metri, rappresenta un tassello fondamentale per la comprensione dell’evoluzione di questi cetacei e dei cambiamenti climatici.

Renato Sartini, giornalista scientifico, ne ripercorre la storia attraverso il documentario “Giallo ocra – Il mistero del fossile di Matera”, la città del Sud Italia designata capitale europea della cultura 2019.

A lancia un vero è proprio urlo, rivolto alle autorità competenti: “Aprite quelle casse!”.

La misura eccezionale del balenttere, 25 metri, è stata stimata grazie al ritrovamento del cranio, largo da zigomo a zigomo ben 2,88 metri. Misure raggiunte oggi soltanto dalla balenottera azzurra (Balaenoptera musculus) e la balenottera comune (Balaenoptera physalus) che con i loro 33 e 26 metri circa sono i più grandi animali che vivono sul nostro pianeta.

“Giuliana”, però, così chiamata per via del lago artificiale di San Giuliano in cui fu scoperta l’8 agosto del 2006 – la diga che sbarra il fiume Bradano a pochi chilometri dalla città di Matera (Italia) – non è stata ancora studiata. E giace ancora, dimenticata da 10 anni, nelle casse in cui fu conservata.

Questa storia, sconosciuta e dimenticata, viene consegnata all’opinione pubblica grazie al documentario di divulgazione scientifica “Giallo ocra – Il mistero del fossile di Matera”, scritto e diretto dal giornalista scientifico e filmaker Renato Sartini che fin dal 2006 si è occupato del ritrovamento, firmando all’epoca un reportage giornalistico per il settimanale “Il Venerdì di Repubblica”.

Il documentario, che verrà presentato in prima nazionale l’8 ottobre prossimo in occasione del trentennale di Futuro Remoto, il festival delle scienze della città di Napoli, racconta tutti i passaggi di questa vicenda intrecciandoli con importanti fatti scientifici attraverso le voci di importanti scienziati che hanno partecipato al recupero del fossile.

«Giuliana è una di quelle innumerevoli e ambiti pezzi seminati da madre natura che ogni ricercatore  spera di trovare per poterlo aggiungere al complicato mosaico della storia del nostro pianeta» racconta Renato Sartini, «ma è ancora chiusa nelle casse in cui è stata conservata nel corso delle tre campagne di recupero. Fatte a cavallo tra il 2007 e il 2011. Eppure le premesse, basate sulla misurazione delle dimensioni e valutazione delle caratteristiche e tipo di dei resti fossili ritrovati, già facevano presagire dal primo sopralluogo dei paleontologi ‘una scoperta eccezionale’», come sottolinea nel corso del documentario uno dei protagonisti, il professor Walter Landini, ordinario di paleontologia dell’Università di Pisa, che insieme ai paleontologi Angelo Varola dell’Università del Salento e Giovanni Bianucci dell’Università di Pisa si sono occupati del cetaceo fin dall’estate del 2006, dopo che l’8 agosto fu ritrovata da Vincenzo Ventricelli, un anziano agricoltore del posto.

Dalle sole dimensioni di alcune parti, la balenottera, nonostante non sia ancora stata studiata a fondo, ci dà importanti informazioni sull’evoluzione di questi cetacei e sui cambiamenti climatici.

«È il più grande fossile di balenottera ritrovata al mondo risalente al Calabriano, cioè a quell’arco di tempo dell’epoca del Pleistocene compreso tra 1.8 milioni e 781mila anni fa. Forse la più grande ad aver mai nuotato nel Mediterraneo» spiega nel documentario Bianucci. «Il recupero del cranio ha permesso di stimare in 25 metri la lunghezza della balenottera, misure raggiunte oggi soltanto dalla balenottera azzurra e dalla balenottera comune che, con i loro 33 e 26 metri circa, sono i più grandi animali che vivono sul pianeta. E poiché quanto più grande è la massa di un corpo tanto più lenta è la sua perdita di calore in acque fredde, il ritrovamento di questo fossile confermerebbe la teoria secondo la quale l’aumento delle dimensioni di questi cetacei sarebbe, dal punto di vista evolutivo, una risposta alle glaciazioni registrate sulla Terra negli ultimi 2 milioni di anni». Che rappresenta un importante tassello per comprendere meglio anche l’evoluzione dei cambiamenti climatici.

Altre importanti informazioni ci vengono da una parziale ricostruzione, da approfondire aprendo le casse in cui è conservata, dell’antico ambiente in cui è morta. Che ci raccontano anche dei movimenti della crosta terrestre. Gli stessi che sono alla base dei terremoti lungo tutta la catena appenninica italiana, la spina dorsale di montagne che segna il centro di quasi tutta la penisola.

«La presenza di flora e di fauna fossile presenti nel terreno scavato che avvolgevano la balenottera è risultata significativa per la definizione dell’antico ambiente in cui è morta, e per la ricostruzione del fondale in cui si è adagiata e che è diventato il suo sarcofago d’argilla» spiega Landini.

 

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«In particolare abbiamo trovato pesci lanterna, che vivono a qualche centinaio di metri di profondità, zoopycus, che sono resti di organismi limivori che si nutrono di detrito organico sui fondali, anch’essi che vivono ad alcune centinaia di metri. Ma anche molluschi che vivono, invece, in acque aperte, oceaniche, fresche, e sono gli pteropodi. Tutto questo indica un ambiente complessivo intorno ai 500, 600 metri di profondità. Un altro elemento estremamente utile per ricostruire l’intera forma dell’antico bacino in cui è morta è risultato dalla presenza di posidonie: sono resti d’origine vegetali che vivono tra zero e 50, 60 metri di profondità.

Questa grande presenza può essere spiegata con l’esistenza di un fondale molto molto ripido, quindi che scendeva quasi in verticale dalla parte emersa fino all’ambiente in cui abbiamo trovato il reperto». Che quindi si trovava in un fondale profondo, cosa che spiega la presenza di argille che si formano per pressioni elevate. Ma cos’è successo allora? E come ha fatto ad arrivare una balenottera sulle colline della Basilicata, a 100 metri sul livello del mare e a circa 40 chilometri dalla costa del Mar Jonio? È stato a causa di un’antico maremoto con relativo tsunami, o per un passato global warming in grado di sciogliere le riserve d’acqua congelate nelle calotte polari o sui ghiacciai alzando il livello del mare fino a 100 metri?

Il documentario spiega proprio questo aspetto al profano che, abituato a sentir parlare sempre di climate change e scioglimenti, non riesce a pensare a una causa diversa. Perché la soluzione del mistero e “sotto i piedi di tutti”. Ed è legata a stretto giro con il recente terremoto che ha colpito il Centro Italia. La balenottera di San Giuliano, infatti, è un “regalo” di quelle stesse forze che il 24 agosto hanno scosso il centro Italia con un sisma di grado 6 della scala Richter.

Distruggendo i paesini di Accumuli, Amatrice e Arquata del Tronto. Causando quasi 300 morti e mettendo fuori uso, come ha comunicato la Protezione Civile italiana, 1486 edifici e rendendone temporaneamente o parzialmente inagibili altri 713. Sono state proprio loro in milioni di anni a sollevare di circa 600 metri il fondale su cui si adagiò la balenottera. Diventata, poi, la sua tomba.

 

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Alessandro Giuliani

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