Attualità

Arrivano 2.500 d’arretrati e 125 d’aumento, ma gli stipendi rimangono “da fame”: pure con gli aumenti -8% rispetto al 2008, proteste a Roma

Sul rinnovo del contratto di Scuola, Università e Ricerca i tempi si stanno rivelando più lunghi di quelli annunciati lo scorso 10 novembre in occasione dell’accordo col ministro e il giorno dopo all’Aran: il via libera di Corte dei Conti e Mef, il dicastero di via XX Settembre, era previsto dai sindacati per fine novembre, ma non è andata così. L’assegnazione metà dicembre degli arretrati di 2019, 2020 e 2021 (in media quasi 2.500 euro soggetti a tassazione separata), più gli aumenti di quasi 125 euro per i docenti e 100 per gli Ata, rimane sempre più che possibile. Ma sulla compatibilità economica dell’ipotesi di contratto serve un’accelerata: quella che dobbiamo attenderci dagli organismi di controllo dello Stato tra il 5 e il 7 dicembre, visto che durante il lungo “ponte” dell’Immacolata (tra l’8 e l’11) difficilmente avremo buone nuove. E subito dopo i sindacati dovranno essere riconvocati all’Aran per il sì definitivo su quello che abbiamo definito un rinnovo da chiudere ma non certo eclatante.

Rimane poi il rammarico per il mancato stanziamento di risorse per il nuovo contratto: quello che va dal 2022 al 2024. C’era un impegno del ministro Giuseppe Valditara, ma nella bozza di bilancio approvata dal Governo non c’è traccia di quei soldi.

Il problema è generalizzato. Riguarda tutti i dipendenti pubblici o almeno quelli che percepiscono stipendi ordinari, dai quadri in giù.

Ancora cortei

Sabato 3 dicembre, il giorno dopo sciopero generale voluto dai sindacati di base, alcune migliaia di lavoratori, assieme a studenti e disoccupati, è scesa in corteo a Roma, da Piazza della Repubblica a San Giovanni, dove si è svolto un comizio: lo slogan con cui hanno sfilato i manifestanti è stato “giù le armi, su i salari“.

Intervistato dall’Adnkronos, Eduardo Sorge sindacalista del SiCobas, ha detto che “il nostro Paese è in guerra attraverso il continuo invio di armi all’Ucraina, in un contesto di crisi economica si continuano a scaricare i costi sociali sui lavoratori e sulla classe proletaria. Mentre aumenta la spesa militare, i salari sono da fame“, ha sottolineato Sorge puntando l’attenzione sul “caro vita”.

Lorenzo Lang, segretario nazionale del Fronte della Gioventù Comunista, anche lui alla manifestazione romana, ha detto che “mentre i prezzi sono alle stelle e i salari fermi da anni, il Governo aumenta le spese militari e taglia su scuola e sanità”.

Secondo Lang, “l’indirizzo del Governo è chiaro: andare avanti con l’agenda Draghi sulla gestione dei fondi del Pnrr e scaricare il costo della crisi su lavoratori e strati popolari, continuando a finanziare la guerra”.

Rapporto mondiale sui salari: Italia peggio di tutti

A ben vedere, le proteste di piazza hanno un fondamento. Lo dice pure il Rapporto mondiale sui salari 2022/23, in base al quale risulta che in termini reali, considerando il costo della vita cresciuto in modo copioso, i salari in Italia risultano più bassi del 12% rispetto al 2008. Anche il 4,2% di aumento derivante dal Ccnl 2019-21 lascerebbe il costo della vita sopra dell’8%.

Poi c’è da dire che il calo di potere d’acquisto degli stipendi riguarda soprattutto le buste paga italiane. L’Australia e la Repubblica della Corea, ad esempio, mostrano una crescita dei salari reali in forte aumento nel periodo 2008-22.

L’Italia, assieme a Giappone e Regno Unito, sono le solo economie avanzate del G20 in cui i salari reali hanno registrato livelli inferiori nel 2022 rispetto al 2008: il 2% in meno in Giappone e -4% nel Regno Unito. L’Italia, con il 12%, veste anche stavolta, purtroppo, la non invidiabile maglia nera.

Gli sconfortanti dati Censis

Le tendenza negativa trova conferme pure nel 56esimo Rapporto Censis ‘Lavoro, professionalità, rappresentanze‘ sulla situazione sociale del Paese, secondo cui l’impennata dei prezzi dell’energia, propagatasi velocemente anche agli altri tipi di beni (alimentari, spese per la casa, trasporti, ecc.), sta comportando una perdita netta del potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti.

Nel rapporto si legge che “l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca) è aumentato nel primo semestre del 2022 del 6,7% rispetto al primo semestre del 2021. Nello stesso periodo, le retribuzioni contrattuali del lavoro dipendente a tempo pieno sono aumentate solo dello 0,7%”. 

Stipendi bassi ma non per tutti

Come si allarga “la forbice della disuguaglianza tra le diverse componenti sociali: le famiglie meno abbienti si confrontano con un incremento medio dei prezzi pari al 9,8%, mentre per le famiglie più agiate l’aumento è del 6,1%, quasi 4 punti percentuali in meno”, spiega sempre il Censis. 

Su tutto, comunque, pesa non poco l’esiguità degli stipendi medi assegnati in Italia: “nell’ultimo periodo, tra il 2012 e il 2021, l’andamento dei prezzi – scrive il Censis – riflette le conseguenze di una fase tendenzialmente deflattiva per l’Italia (in media 0,7% annuo), caratterizzata soprattutto da una moderazione salariale che ha di fatto rimosso qualsiasi rischio di innesco della spirale prezzi-salari”.

Aumenti già vanificati

Il dramma è che l’anno prossimo “gli attuali livelli di inflazione – con punte di rialzo dei prezzi dei beni alimentari intorno all’11%, senza contare gli incrementi del 50% dei beni energetici – potrebbero incidere profondamente sul potere d’acquisto delle famiglie”.

In queste condizioni, gli aumenti di stipendio del contratto 2019/2021 sembrano già “consumati”: il Governo Meloni dovrà per forza di cose tenerne conto.

Alessandro Giuliani

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