Home I lettori ci scrivono Assistente comunicazione: una condizione lavorativa che peggiora ogni anno

Assistente comunicazione: una condizione lavorativa che peggiora ogni anno

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Mi chiamo Cristina Pravatà. Sono un’assistente alla comunicazione dall’ormai lontano anno scolastico 2002/2003. Ho svolto la professione inizialmente presso le scuole secondarie di secondo grado, su incarico assegnato dall’ex provincia (oggi città metropolitana) di Palermo, e successivamente (e a tutt’oggi) presso le scuole primarie e secondarie di primo grado, su incarico conferito dal Comune di Palermo.

In tutti gli anni di servizio prestato, ho potuto constatare come le nostre condizioni lavorative, invece che migliorare, peggiorassero ad ogni nuovo anno accademico, con l’aggiunta, via via, di maggiori limitazioni. Ad oggi, la nostra forma contrattuale è un “atto di adesione”. Ci viene assegnato un numero di ore settimanale variabile (in base alle ore di assistenza assegnate a ciascun allievo, nel corso del GLHO), che siamo tenuti a rispettare, senza potere recuperare quelle eventualmente perse (mentre, fino a pochi
anni fa, ci veniva fornito il totale annuo e potevamo svolgerlo come ritenevamo fosse più idoneo, in base alle esigenze degli allievi e nostre; poi da annuo è divenuto mensile ed infine settimanale).

Gli incarichi sono un autentico “terno al lotto”: Bisogna sperare di seguire un allievo che non faccia molte assenze, poiché siamo pagati solo per le ore effettivamente svolte, anche in caso di assenze prolungate. Se ci rechiamo a scuola, e l’alunno non c’è, ci viene retribuita solo la prima ora, ma solo se non eravamo stati preventivamente avvisati dalla famiglia. In caso contrario, rimaniamo direttamente a casa, perdendo la giornata lavorativa.
Non abbiamo diritto alla malattia, all’indennità di disoccupazione, alle ferie. Nei periodi di vacanza non percepiamo compenso.

Nel nostro atto di adesione, come si può leggere prendendone visione, viene specificato a chiare lettere che NON SIAMO lavoratori soggetti a subordinazione e che svolgeremo la prestazione professionale in piena autonomia e sia il Comune che le scuole si affrettano, ogniqualvolta lo ritengano necessario, a sottolineare e specificare che noi NON FACCIAMO PARTE del personale scolastico, non siamo in organico, (ad esempio, quando, lo scorso anno, molti colleghi, in varie scuole, si sono visti negare le mascherine o altri dispositivi, proprio con la motivazione che per noi non era previsto che la scuola li fornisse!) ed espressioni similari.

Adesso che è stato introdotto il decreto legge che sancisce l’obbligo del green pass per il personale scolastico, seppure, ripeto, noi non ne facciamo, di fatto, giuridicamente parte, il Comune di Palermo, tramite nota del 13/08/21, che allego alla presente, scrive che, nella specifica situazione (e solo in merito a questo), possiamo essere “ASSIMILATI” (non sono un avvocato ma, onestamente, mi sfugge secondo quale principio legale, e a quale titolo tale terminologia abbia valore) al personale scolastico e che, quindi, chi non avrà il green pass, in sede di convocazioni, non avrà diritto all’assegnazione dell’incarico per l’a.s. 2021/2022 (benché, essendo regolarmente inseriti nella graduatoria comunale, tale diritto dovrebbe essere pienamente riconosciuto).

Io mi chiedo (e vi chiedo): Per quale motivo, quando si parla di doveri (e di obblighi, come in questo caso) il Comune dice che siamo “assimilabili” al personale scolastico, mentre quando si tratta di diritti, siamo ben lontani dall’esserlo e, anzi, siamo sempre più precari? Secondo voi è giusto che sia così? Se dobbiamo ritenerci “assimilabili” al personale scolastico, perché, ancora oggi, dopo anni di lotte, il MIUR non ci internalizza? Perché non abbiamo un vero contratto, degno di questo nome? Perché non ci vengono riconosciuti il diritto alla malattia, alla ferie, alla maternità, ecc?

Vi prego di voler dare voce alla situazione mia e di tutti quei colleghi che come la sottoscritta, ritengono vergognosa questa “assimilazione” solo in base alla convenienza dei casi, e non vogliono vedersi costretti a cedere al ricatto del “niente green pass, niente lavoro”.

Cristina Pravatà