Riprendo il tema dell’elevata età media dei docenti italiani, che non è solo uno dei nodi fondamentali che i nostri politici non si decidono a sciogliere: è anche un esempio dell’immobilismo del nostro Paese, della mancanza di buon senso della classe di Governo, della blanda attenzione delle forze sindacali ai problemi che toccano i lavoratori ed, infine, entrando nell’ambito specifico dell’istruzione, dell’assoluta indifferenza verso i problemi reali della scuola italiana.
Va da sé che gli effetti della “riforma” Fornero si sono manifestati non soltanto nella scuola – perciò, anche se parlerò di scuola, la mia solidarietà a tutti coloro che svolgono lavori umili e faticosi e che sono obbligati a lavorare sino alle soglie dei settant’anni è totale.
Cosa è successo alla fine del 2011? Un Governo guidato da un distinto signore che dichiara un milione di euro di reddito all’anno, usando come braccio armato una distinta e spocchiosa signora dalle lacrime facili, ha creato una emergenza sociale cui possono essere indifferenti soltanto coloro che vivono egoisticamente nella loro situazione di estremo privilegio. Purtroppo, ai tempi di Monti e Fornero sono state quasi inesistenti le proteste dei lavoratori – e ciò si può spiegare soprattutto con il profondo conformismo del ventre molle della sinistra italiana, il quale, mentre Monti e Fornero colpivano duro, sognava inebetita un Paese migliore e libero dal berlusconismo.
Purtroppo, ancora, l’unica forza politica che si è mossa per cercare una soluzione dal basso ai guasti della Fornero, attraverso il referendum, è stata la Lega Nord (con l’apporto minoritario dell’“Italia dei valori”), nella più totale indifferenza delle forze sindacali e dei partiti di “opposizione”.
Dopo anni e anni di discussione su “gradini” e “gradoni”, dopo minacce di rivolte per l’innalzamento di sei mesi dell’età pensionabile, sono bastati un Tremonti (diamo a Cesare quel che è di Cesare: Tremonti aveva già innalzato l’età della pensione a 65 anni per le lavoratrici donne del pubblico impiego) e una Fornero per spingere in avanti di un decennio l’età della pensione e fare così del nostro Paese quello che, nell’ OCSE, può vantare i lavoratori più anziani. Ma veniamo alla scuola e all’emergenza costituita dai molti insegnanti sopra i 60 anni. “Sempre più vecchi i docenti italiani, l’età media è di 48 anni e mezzo. Quasi un docente su due ha più di 50 anni. La percentuale di docenti di età superiore al mezzo secolo ha raggiunto infatti in questo anno scolastico quasi il 45%. Solo sei anni fa i docenti ultracinquantenni erano circa il 27% del totale, cioè poco più di un docente ogni quattro”. Questa citazione che sembra così attuale è invece del luglio del 2004 (da “Tuttoscuola”); evidentemente il problema si profilava già allora. I docenti assunti a tempo indeterminato erano “vecchi” ed il precariato restava tale per decenni.
L’articolo individuava correttamente le cause del fenomeno: “un lento turn over, dopo che nella seconda metà degli anni ’90 le varie “finestre” per i pensionamenti anticipati si sono definitivamente chiuse, fissando anche per i docenti il limite minimo di 57 anni di età (e 35 di servizio) per le dimissioni dal servizio; e soprattutto le assunzioni a singhiozzo, con un debole ricambio delle nuove leve che, dopo anni e anni di precariato, entrano nella scuola già cariche di servizio e di età”. Pochi anni dopo, il fenomeno dell’invecchiamento dei docenti veniva preso in considerazione da uno studio della Fondazione Agnelli: “Oggi gli insegnanti italiani sono fra i più vecchi del mondo. La loro età media supera i 50 anni. Il valore oscilla tra i 47 anni della scuola primaria (le elementari) e i 51 anni della scuola secondaria inferiore (la “scuola media”), mentre nella secondaria superiore l’età media supera i 53 anni di età. Di conseguenza, gli insegnanti con più di 50 anni sono oltre il 55% del totale”.
Lo studio prevedeva, allora, un “grande esodo”: “Nei prossimi dieci anni tra i 320mila e i 340mila docenti lasceranno la scuola per limiti di età. Un esodo di tali proporzioni – che non ha precedenti nella storia d’Italia – è al tempo stesso un rischio e un’opportunità”. Erano i tempi in cui esisteva ancora la pensione di anzianità e nemmeno i ricercatori della Fondazione Agnelli, peraltro spesso immaginifici, riuscivano a prevedere il “grande balzo in avanti” dell’età pensionabile a firma Tremonti- Monti- Fornero. Conclusione: il problema dell’invecchiamento dei docenti è un problema più che decennale, legato a doppio filo al problema del precariato e della disoccupazione “giovanile” (ma mi chiedo se, a 35-40 anni si possa essere considerati “giovani” dal punto di vista lavorativo).
Ed è da decenni che si discute del burn out, del logoramento inevitabile derivante dalle cosiddette helping profession. Qui l’insegnamento ha una sua specificità negativa: se molti pazienti ringraziano il medico o l’infermiere che si prende cura di loro, gli studenti che considerano il lavoro dell’insegnante come opera svolta a loro vantaggio sono ben pochi. Prova ne è la preoccupante situazione disciplinare in molte aule del nostro Paese – ed il fenomeno andrebbe indagato e corretto, ma è sicuro che un sessantenne dovrebbe essere esonerato dal farsene carico.
È recentissima la notizia del crollo dei pensionamenti nel 2016: seimila docenti e duemila ATA in meno, rispetto ai 19.000 insegnanti e quasi 5.000 Ata andati in pensione nel 2015. Il nostro è un Paese governato da individui che non hanno saputo dare una risposta decente alle poche migliaia di insegnanti bloccati in servizio, per un cavillo burocratico, dalla “riforma” Fornero, la più ottusa, la più scorretta (in tutti i sensi) la più ideologica delle “riforme” di questi anni bui. Alcuni “quota 96” sono ancora in cattedra – e ciò dovrebbe dire la parola definitiva su una classe politica che non si preoccupa di emendare nemmeno i propri svarioni. Ho definito la riforma Fornero la più ideologica delle riforme. Voglio dire che è quella che più direttamente di altre va ad incidere su un dato fondamentale: l’esistenza in vita.
C’è un tempo per il lavoro ed un tempo per il riposo: sottrarre ad un sessantenne la prospettiva di poter godere di un tempo di riposo adeguato al suo impegno lavorativo è un’azione malvagia, tanto quanto piegare i giovani a lavori sempre più dequalificati, sempre più gravosi, sempre meno pagati. Peraltro sulla durata della vita media, l’ultimo dato ISTAT getta una luce sinistra: nel 2015 la mortalità è aumentata dell’11%, dato interpretabile ma certo non rassicurante. Come si può sperare in una “buona scuola” con queste premesse? Come si può ignorare che il personale docente è per l’80% donna e che quindi, verosimilmente, si è anche fatto carico del lavoro domestico e dell’accudimento di figli e anziani genitori? La risposta vergognosa dell’ “opzione donna”, che toglie circa un terzo di reddito a chi voglia andare in pensione, dà l’idea precisa di quanto la questione femminile stia a cuore ai politici. Il messaggio che proviene dall’ “opzione donna” è questo: “Ti abbiamo concesso di lavorare, adesso tornatene a casa ad accudire la famiglia e accontentati di quello che ti diamo, che è già troppo”. Così non va per niente bene.
La “buona scuola” di Renzi ha ignorato del tutto l’età media dei docenti, così come ha messo tra parentesi il problema del basso reddito e di contratti di lavoro fermi al 2009. L’unica novità di quest’anno è che nelle scuole sono comparsi i colleghi (la cui età è un po’ più giovane di quella media) del cosiddetto “organico di potenziamento”. I quali, poveretti, devono lavorare inventandosi il lavoro da fare. A loro, per illuminare questa arida disamina con un guizzo poetico, ben si addice una frase di Luigi Pirandello, che, come sappiamo, nacque nella contrada Caos di Agrigento: “Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’ un altipiano di argille azzurre sul mare africano. Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà…”. Buttati nelle scuole a caso (non importa se la loro classe di concorso esista nell’istituto in cui vengono inseriti), destinati a coprire le supplenze brevi, usati in modo flessibile sono proprio figli del Caos, di quel Caos che auspica la massima “flessibilità” del lavoratore e la minima esistenza di diritti, di quel Caos che spinge, in ogni dove, il lavoro salariato verso il lavoro servile. Anche a scuola, quindi, si deve applicare il modello dominante: gerarchico (potere a dirigenti e “staff”), falsamente “meritocratico” (premi per i più ossequienti e proni, botte, per ora metaforiche, ai “contrastivi”), tecnocratico.
E la scuola di Renzi non è poi così diversa da quella delle “tre I” di Berlusconi. Ricordiamoci però, che alle “tre I” se ne possono opporre altre: Italiano – e cioè la lingua madre, che la scuola deve insegnare a padroneggiare; Intelligenza – che la scuola deve aiutare a sviluppare; Immaginazione – senza la quale nessun essere umano è veramente tale, poiché naufraga nel mare dell’esistente, senza nemmeno intuire che esistono alternative migliori per tutti.
Infine, ammesso che qualcuno nel Parlamento italiano abbia davvero a cuore le sorti della scuola, ci si impegni per fare quanto immediatamente si può per migliorare la situazione, e cioè: mandare dignitosamente in pensione chi ha superato i 35 anni di servizio, creare condizioni di lavoro decenti per i neo-immessi in ruolo, lavorare ad un rinnovo contrattuale che preveda miglioramenti normativi ed economici.
Un docente che non riesca a pagare l’affitto o le tasse universitarie per i propri figli, un docente che fatichi ogni giorno a mandare avanti un lavoro che conosce bene ma al quale ha già dato tutte le sue energie, non è una persona serena – ed una persona che non è serena non può essere un buon insegnante.
I provvedimenti che sinora il Governo Renzi ha preso sulla scuola, al di là del clamore mediatico, non hanno apportato miglioramenti: le immissioni in ruolo erano obbligate dal rispetto della normativa europea, la “mancia” da 500 euro per l’aggiornamento è una infima quota di ciò che è stato sottratto agli insegnanti in sette anni di blocco contrattuale, la deriva autoritaria legata al bonus al merito e alla chiamata diretta da parte dei dirigenti non farà che aumentare il disagio nelle scuole. Un solo dato ci dice davvero come vanno le cose e lo ricaviamo dal Documento di Economia e Finanza: quest’anno la spesa per l’istruzione passa dal 3,9% rispetto al PIL al 3,7%. È un esempio di “decrescita infelice” che dovrebbe muoverci tutti ad una ferma, rigorosa protesta.
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