I fatti di cronaca che ultimamente sono avvenuti ci inducono a pensare che, nella società nella quale viviamo, aumenti il divario tra le due agenzie educative più importanti: la famiglia e la scuola. Spesso la sbandierata ed auspicata collaborazione tra di esse, finalizzate al benessere dei bambini, che in entrambe trascorrono gran parte della loro vita, rimane solo enunciata o addirittura negata.
Così, la scuola viene sempre più spesso chiamata in causa dalle famiglie; i genitori infatti, ormai “compressi”, stritolati dalle incombenze lavorative, distratti dalle mille superficialità a cui la nostra società ci obbliga, non riescono più a trovare il giusto equilibrio tra il ruolo di donna/madre e uomo/padre.
Da questo deriva una nuova strutturazione del periodo dell’infanzia e della fanciullezza, caratterizzato da bambini “smarriti”, i quali non riescono a comunicare i loro bisogni a dei genitori troppo distanti anche se presenti fisicamente, riversando sulla scuola la gestione di dinamiche a cui essa tenta di dare delle risposte non sempre efficaci; non esiste più la “sintonizzazione emotiva”.
L’aumento dei disturbi della sfera del linguaggio, la carenza delle autonomie correlate alle tappe di sviluppo, le difficoltà motorie, sono solo alcune delle evidenti problematiche con cui la scuola tenta di fare i conti tutti i giorni.
La Dichiarazione dei diritti dell’infanzia ci ricorda che tutte le decisioni che vengono prese dagli adulti, sia all’interno della famiglia che delle istituzioni, devono avere come supremo interesse quello del bambino; inoltre ogni bambino ha diritto ad essere curato, ad essere ascoltato; ha il diritto di giocare, di riposarsi e di avere tempo libero.
Non è difficile osservare che, i genitori chiedono alla scuola di allungare i tempi di permanenza dei bambini al suo interno, non solo nella giornata scolastica, ma addirittura nei mesi dell’anno, per un tempo che non è per nulla funzionale alla loro crescita; forse vale la pena ricordare che i bambini hanno maggiori esigenze degli adulti, bisogni più delicati.
Quello che accade in realtà è che i bimbi invece, sono costretti a tenere ritmi di vita che per nulla sono rispettosi del loro livello di sviluppo e di maturazione; mi chiedo: è coerente far vivere ai bambini una vita a misura di adulto? E’ giusto tenerli impegnati per lo stesso numero di ore della giornata lavorativa di un genitore? E’ proficuo per la loro crescita concedergli lo stesso periodo di ferie che spetta ad un lavoratore?
Mi chiedo come può la scuola interpretare e soddisfare i nuovi bisogni del bambino dimenticato, trascurato, adultizzato, sconosciuto, incompreso, impaurito?
Occorre che la scuola, soprattutto quella statale, rifletta su se stessa e sulle nuove funzioni ed identità che dovrà darsi, al fine di esplicare la sua funzione educante anche nei confronti delle famiglie.
Milena Testa
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