Di fronte alla decisione di aumentare di cinque mesi l’età pensionabile, portandola a 67 anni possiamo soltanto chiederci che razza di testa ha chi ci governa e quale logica seguano i nostri politici nel prendere iniziative non soltanto impopolari ma dannose socialmente oltre ogni misura.
I conti dell’Inps e della Ragioneria dello Stato possono dunque aver la prevalenza sul dato di realtà e sul più elementare senso di giustizia? Sembra di sì. La decisione non è ancora presa in via definitiva (in realtà l’aumento dell’età pensionabile ha bisogno di un decreto direttoriale da emanare entro la fine dell’anno e che, peraltro, non passa per il Parlamento), ma è sempre più propagandata e quindi sempre più probabile; come capita ormai da decenni, non si riesce bene a distinguere “l’annuncio” dal provvedimento vero e proprio. Anche questo aspetto relativo alla comunicazione andrebbe indagato: l’unica speranza di rinvio del decreto annunciato sono le imminenti elezioni politiche. In effetti sarebbe un primo esordio brillante per il nuovo governo la conferma dell’aumento dell’età pensionabile. Sarebbe una sorta di battesimo del fuoco che ci confermerebbe che il nuovo governo non è affetto dalla tabe del “populismo” ma che, anzi, si tratta di un governo saldamente e schiettamente antipopolare. E tutti tireremmo un sospiro di sollievo!
Governare contro gli interessi del popolo è l’unica cosa che i politici nazionali sembrano saper fare bene. A sei anni dalla “riforma” Fornero non si sente, ad esempio, la necessità di rimediare ai guasti della più dannosa di tutte le riforme dell’epoca berlusconian-renziana, gemella brutta del jobs act; se l’una toglie sicurezza e dignità al lavoro dei giovani, l’altra toglie sicurezza e dignità alla vita degli anziani, rendendola ancor più precaria con un assegno sempre più esiguo e spostando in avanti il traguardo della pensione. E se chi è giovane può sperare in un futuro di lotte sociali che riportino equità nel rapporto di lavoro, a chi è anziano non resta che la rabbia di vedere i propri diritti svenduti come privilegi, da parte di una classe di comando (governare è un’altra cosa) formata da politici collusi con i poteri forti dell’economia e della finanza.
Tutto questo è insopportabile – la miopia della nostra classe di comando, la politica di piccolo cabotaggio volta allo smantellamento di quel benessere diffuso che tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta aveva fatto del nostro un Paese ai primi posti nelle classifiche internazionali (nonostante i molti problemi che anche allora lo travagliavano) sono davvero inaccettabili. La concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi è scandalosa: il Sole24ore nel gennaio di quest’anno riportava il rapporto Oxfam. Fra i molti dati, uno è particolarmente significativo: nel 2016 l’1% (uno per cento) della popolazione italiana possedeva il 25% della ricchezza nazionale. E non si invochi l’alibi della “globalizzazione” per giustificare il peggioramento delle condizioni di vita delle masse nei Paesi occidentali: la metà più povera del pianeta è ancora più povera che in passato. La forbice si allarga ed i più ricchi sono sempre più ricchi, a danno di chi si impoverisce. Questa si chiama crescita della diseguaglianza ed i suoi effetti sono a tutto campo, compresa l’aspettativa di vita, che aumenta soltanto nelle stime ISTAT.
Di lavoro faccio l’insegnante nelle scuole superiori: non posso esimermi da un attacco di rabbia quando leggo che viene considerato lavoro usurante soltanto quello delle maestre di scuola materna. E chi insegna in un istituto tecnico o professionale, tenendo a bada una trentina di adolescenti per classe, fa un lavoro riposante? A sessant’anni la gran parte degli insegnanti è stanca del proprio lavoro: il che non vuol dire che non dedichi passione e competenza agli studenti.
Ma lo fa a danno della propria salute e a danno, involontario, dei propri colleghi più giovani, tenuti in un angolo per decenni, sottomessi ad un precariato troppo lungo per una professione in cui si dà il meglio di sé tra i trenta e i cinquant’anni. Abbiamo la classe docente più vecchia del mondo; e quel che vale per la scuola vale anche per altri lavori, altrettanto (o più) faticosi per la psiche ed il corpo.
Al freddo e ragionieristico aumento dell’età pensionabile si contrapponga una proposta semplice e più giusta: pensione dopo trentacinque anni di lavoro, con adeguamento della stessa all’aumento del costo della vita. E non ci si dimentichi di chi sta lavorando: tre milioni di dipendenti pubblici sono senza contratto dal 2009. Si rivendichino un rinnovo del contratto congruo, una una tantumcospicua sugli otto anni non coperti da aumenti contrattuali, la revisione dell’intesa (vergognosa) tra Governo e sindacati “maggiormente rappresentativi” (ma si dovrebbe dire “maggiormente collusi con la controparte”) che vorrebbe dare a tre milioni di dipendenti pubblici 85 euro medi, mensili, lordi, a piramide rovesciata. Capiamo bene cosa voglia dire, in questo caso, dare di più a chi guadagna di meno: incrementare gli stipendi più “alti” di qualche decina di euro dopo otto anni di blocco e fare in modo che agli stipendi più bassi venga dato ugualmente poco (in quanto, oltre i 26.000 euro lordi di reddito complessivo non si avrà più diritto al bonus di 80 euro e quindi l’aumento contrattuale di fatto si ridurrà). Un suggerimento per i nostri politici: recuperate, per il contratto della scuola, gli oboli da 500 euro e i fondi per il bonus al merito e redistribuite, sulla paga-base, anche queste risorse. Che un insegnante abbia circa mille euro lordi di aumento annuo, mentre i dirigenti scolastici si avviano ad averne dieci volte tanto non può che peggiorare il clima scolastico.
Il mio appello è rivolto a quei docenti che considerano ingiusta la sottovalutazione del loro lavoro, che si è espressa negli ultimi venti anni in un susseguirsi di “riforme” senza criterio, in una erosione costante dello stipendio, in una crescente messa sotto accusa dei docenti come primi responsabili di un processo di frattura fra vecchie e nuove generazioni, che in realtà ha radici plurime e profonde. Se non lo facciamo noi, nessuno si farà carico di esprimere il nostro disagio: l’appuntamento più prossimo per manifestare scontento e protesta è quello del 27 ottobre prossimo. E’ indetto da una pluralità di sigle sindacali di base (CUB, SGB, SI-COBAS, USI-AIT e SLAI-COBAS) ed è vero che non comprende tutto l’arco del sindacalismo di base. Così com’è vero che una giornata di sciopero costa; ma altre forme di lotta stentano a decollare e se oggi siamo a questo punto è soprattutto a causa di un atteggiamento dei lavoratori attendista (il miracolo dello “sciopero unitario” è lungi dal verificarsi), troppo rassegnato, pronto ad incassare ogni insulto. Il 27 ottobre può essere la data di un nuovo inizio di giuste rivendicazioni.
Altrimenti, sappiamo cosa ci attende: lavori sempre più logoranti e subalterni, stipendi sempre più bassi e una pensione misera, in età avanzatissima. È ora di renderci protagonisti delle nostre vite e di non lasciare che i cosiddetti “decisori politici” le condizionino negativamente.
di Giovanna Lo Presti
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