C’era una volta la gestione democratica della scuola. Ufficialmente c’è ancora: infatti vigono ancora i Decreti Delegati 416 (sugli organi collegiali della scuola) e 417 (sullo stato giuridico del personale docente, direttivo e ispettivo) del 1974: i quali, essendo Decreti del Presidente della Repubblica (D.P.R.), sono norme di primo livello nella gerarchia delle fonti normative. Vigono le prerogative del Collegio dei docenti (organo di autogoverno in ambito didattico, metodologico e progettuale), sebbene la cosiddetta “autonomia scolastica” — legge 59/1997 e successive normative “Bassanini” (cui solo i sindacati di base si opposero) — abbia tramutato dall’anno 2000 il capo d’istituto in dirigente scolastico.
Con le prerogative del Collegio confligge però la facoltà, assegnata al dirigente dall’“Autonomia scolastica”, di scegliersi i collaboratori senza consultare il Collegio stesso. Prima dell’“autonomia”, il preside sceglieva il vicepreside fra i candidati votati dal Collegio. Più che di “autonomia scolastica”, perciò, dovremmo parlare di “autonomia dirigenziale”: lo spostamento di poteri che ha ossimoricamente preposto all’organo di autogoverno dei docenti un dirigente incaricato dal Ministero.
Anno dopo anno, il cambiamento ha dato i suoi frutti: primo fra tutti la sudditanza di molti docenti (specie dopo la legge 107/2015, “buona scuola” di Renzi) rispetto al dirigente e al suo “staff”; sudditanza dovuta spesso alla atavica paura italica di dire pubblicamente la propria opinione davanti a chi rappresenti un “potere”. Poiché gli italiani (persino se docenti) non si fidano del potere, la gerarchizzazione si è autoimposta naturalmente, come un frutto cade dall’albero quando è maturo.
Ma la posizione di “superiorità” del dirigente scolastico è stata pianificata dalle scelte normative degli ultimi 30 anni, tutte coerentemente operate da governi d’ogni colore. Al dirigente scolastico è stata fornita un’area contrattuale separata (come voluto dal D.Lgs. 29/1993, che mise gli insegnanti di scuola nel Pubblico Impiego — con rapporto di lavoro privatizzato — sebbene non fossero impiegati esecutivi).
Il risultato è una posizione contrattuale — ed economica — molto superiore quella dei docenti. Un esempio? L’ultimo CCNL dei dirigenti scolastici, con aumenti superiori ai 500 euro lordi. Pur con una retribuzione inferiore del 30% rispetto agli altri dirigenti dello Stato (come quelli del Ministero dell’Istruzione, che spesso superano € 100.000 annui lordi), i dirigenti scolastici godono di uno stipendio annuo lordo (da € 70.000 100.000) tra i più alti dell’area OCSE: più di quelli francesi, neozelandesi, israeliani, norvegesi, portoghesi, islandesi, sloveni, polacchi, cileni, cechi, estoni, turchi, slovacchi. Più pagati dei nostri prèsidi sono solo quelli di Lussemburgo, Regno Unito, Australia, USA, Paesi Bassi, Austria, Belgio, Danimarca. Stipendio — beninteso — meritatissimo, visto l’impegno che molti dirigenti scolastici profondono e le enormi responsabilità loro accollate (finanziarie, amministrative e tecniche).
I docenti italiani, viceversa, malgrado responsabilità civili e penali, titoli di studio, carichi di lavoro e una professionalità che cresce con l’esperienza, son pagati meno di tutti i loro colleghi europei, e meno di tutti i laureati italiani con mansioni da laureati. Per gli ATA, poi, salari da fame: inferiori di almeno € 5.000 annui quelli di altri lavoratori pubblici. ATA che hanno anch’essi il proprio superiore: il “DSGA” (“Direttore dei servizi generali e amministrativi”, prima dell’“autonomia” chiamato segretario), funzionario amministrativo e direttivo, retribuito da € 22.829,10 a 35.744,83 lordi l’anno (più del docente di scuola superiore più anziano, mentre il vecchio segretario era pagato meno dei docenti). Quasi tutti — docenti e ATA — lavorano (insieme a milioni di studenti) in edifici malsicuri, quando non fatiscenti.
A voler esser maligni, verrebbe da pensare ad una pedagogia sociale chiarissima: la scuola non conta, chi vi lavora ancor meno; si pagano molto i pochissimi che contano davvero, perché rispondono del loro operato direttamente al Ministero. Ma noi maligni non siamo, e preferiamo aver fede nella buona fede del legislatore dell’ultimo trentennio, che ha sicuramente operato nel superiore interesse della Patria e per il bene collettivo (così come quei sindacati che non si sono opposti a tutto ciò).
Chi sono i diretti superiori dei dirigenti scolastici? Gli ispettori scolastici (o dirigenti tecnici); ai quali spetta il controllo di gestione sui risultati raggiunti in relazione agli obiettivi assegnati. Possono applicare ai dirigenti scolastici il “Piano Sanzionatorio per mancanze disciplinari”, che prevede una serie di provvedimenti: dalla multa di € 150, alla sospensione senza stipendio per mesi, al licenziamento (irrogato dall’“Ufficio Procedimenti Disciplinari”).
Insomma, dal 1993 in poi sulla scuola — formalmente funzionante secondo i principi democratici che ispirano tuttora i Decreti Delegati — è stata calata un’irregimentazione dirigistica e accentratrice, chiamata “autonomia scolastica”, che è in realtà autonomia (relativa, perché sottoposta al Ministero, cioè al governo) dei dirigenti scolastici rispetto agli organi collegiali della scuola. I dirigenti hanno sui docenti ampi poteri disciplinari (che prima spettavano ai consigli di disciplina).
Un’autonomia del mercato rispetto alla didattica, con le scuole tramutate in aziende in competizione tra loro per accaparrarsi alunni/utenti/clienti che alle prime difficoltà fuggono da una scuola per cercar quella meno esigente. Con quali risultati sul livello nazionale di istruzione rispetto a trent’anni fa? Il giudizio ai nostri lettori.
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