I ragazzi stanno male. E anche i bambini. Disorientamento, difficoltà relazionali, crisi d’ansia, attacchi di panico, angoscia sono solo alcune delle manifestazioni di questo disagio. Ogni giorno i docenti di tutta Italia, delle scuole di ogni ordine e grado, si confrontano con un’emergenza che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Solo chi non è mai entrato in contatto con i piccoli e gli adolescenti potrebbe negare che stanno attraversando una fase di profonda sofferenza. E solo chi non ha mai insegnato potrebbe pensare che prima della pandemia tutto andasse bene.
Non è così.
Ormai da anni, in concomitanza con i cambiamenti economico-sociali e culturali che hanno interessato il nostro Paese nel più ampio quadro della globalizzazione, il mondo della scuola è testimone dell’aumento esponenziale delle richieste d’aiuto da parte di alunni di tutte le età che, il più delle volte, riescono ad esternare i loro bisogni e le loro angosce proprio a scuola, con i loro docenti e con i loro compagni, piuttosto che in famiglia.
Sono deboli? Troppo viziati? Sono peggiori di noi?
Non credo proprio. Esternazioni di questo tipo servono solo a chi vuole deresponsabilizzarsi, individuando come causa del malessere diffuso l’incapacità di bambini e adolescenti di reagire e di essere resilienti (l’aggettivo magico troppo spesso usato come invito ad adeguarsi al sistema). I nostri studenti sono migliori di noi e il loro malessere ne è la prova. È la protesta (implosiva non esplosiva, questo sì) contro un sistema sociale che non va bene. Ed è, ad oggi, l’unica protesta in atto nel desolato contesto di assuefazione generale.
Come si configura l’attività dei docenti in questo quadro?
Ogni giorno ci troviamo a dover far fronte a un numero altissimo di richieste, gestendo un carico di lavoro che solo chi fa questo mestiere può comprendere. Occorre:
E poi bisogna fare lezione. La punta di un iceberg che rappresenta solo una piccola percentuale del nostro lavoro. L’unica visibile. O, meglio, l’unica che si vuole che sia visibile agli occhi dei non addetti ai lavori.
A quanto elencato vanno aggiunte tutte le attività connesse all’insegnamento che comprendono riunioni, collegi dei docenti, incontri scuola-famiglia, ecc. nonché tutti i compiti burocratici che sono stati demandati ai docenti, triplicandosi sotto la spinta dell’emergenza pandemica, e che ingrossano le fila del lavoro sommerso.
Non sarà difficile capire che, per orientarsi in un quadro di complessità così ampio, l’aggiornamento e la formazione sono fondamentali. E i docenti se ne preoccupano da sempre, da ancor prima che una legge, la n. 107 del 2015, introducesse questo concetto come “rivoluzionario”. Ci aggiorniamo perché ogni giorno siamo in contatto con il mondo che cambia e sappiamo che cosa occorre a ciascuno di noi per crescere e aiutare i nostri alunni. E solo noi docenti possiamo saperlo, perché quel che occorre in un determinato contesto classe non è detto che sia necessario in un altro. I bisogni della scuola possono essere esplicitati solo da chi la scuola la fa, la vive, la tiene in piedi, solo da chi entra in aula ogni giorno e mette al servizio degli alunni la propria professionalità, in un intreccio di vite che non svanisce al termine delle lezioni.
E allora che ben venga la formazione, è una buona notizia che il Governo vi si interessi e voglia finanziarla.
Ma di quale formazione si tratta? E tramite quale iter si è pervenuti all’ideazione del nuovo sistema? E, soprattutto, chi ne paga il prezzo?
Il sistema di “formazione continua incentivata”, previsto dall’articolo 44 del decreto legge n. 36 del 2022 che sarà convertito in legge entro il 29 giugno, prevede l’Istituzione di una Scuola di alta formazione che avrà il compito di promuovere e coordinare la formazione in servizio dei docenti di ruolo, avvalendosi dell’INDIRE e dell’INVALSI per lo svolgimento delle sue attività e sarà dotata di autonomia amministrativa e contabile.
Si avvieranno percorsi di formazione triennale con verifiche intermedie annuali nonché una verifica finale che i docenti di ruolo sosterranno dinanzi a un comitato per la valutazione dei docenti (art. 11, D.L.VO 16 aprile 1994, n. 297), integrato, nella fase di verifica finale, da un dirigente tecnico o da un dirigente scolastico di un altro istituto. I contenuti della formazione saranno definiti dalla Scuola di alta formazione, Ente in cui è esplicitamente dichiarato che non potrà essere impiegato, a qualunque titolo, personale docente del comparto Scuola. Quindi gli insegnanti, gli unici che conoscono nel dettaglio ciò che serve alla scuola, non avranno voce in capitolo nella partita che decide della loro formazione e del tempo extracurricolare che dovranno dedicarvi.
Ogni docente sa bene quanti corsi di formazione, anche gestititi da Enti di tutto rispetto, si sono rivelati nella sostanza inutili, perché completamente avulsi dal contesto scuola. E il fatto che nel decreto si affidi la nostra formazione a chi la scuola non la vive, senza ipotizzare alcuna forma di collaborazione in fase di progettazione delle attività e di erogazione dei corsi è un’assurdità.
Ma ancor più assurdo è il fatto che si pervenga a una riforma così invasiva per il sistema scolastico tramite decreto legge, bypassando il confronto con i sindacati e negando al Parlamento la possibilità di discuterne dedicandovi l’attenzione e il tempo necessari e informando con chiarezza l’opinione pubblica. Questa trasformazione inciderà pesantemente sulla professione docente, azzererà la libertà degli insegnanti di scegliere gli ambiti della propria formazione, con il meccanismo della valutazione creerà sistemi di controllo e competizione interni che non possono portare buoni frutti in una comunità educante.
Tali sistemi, caldeggiati dalla legge 107, forse potranno andar bene per un’azienda (ho i miei dubbi), ma sono nocivi per la scuola. Negli ambiti lavorativi in cui ci si prende cura degli altri, e lo si fa in squadra, i valori che devono stare alla base della relazione tra pari e con i Presidi (oggi, non a caso, chiamati Dirigenti) sono la collaborazione, la condivisione, il sostegno reciproco, la comunione di intenti, il confronto schietto, la libera espressione del proprio pensiero, l’impossibilità di essere soggetti a ricatto.
Il fatto che si sia agito tramite decreto ha tagliato fuori ogni forma di opposizione seria e l’indisponibilità all’ascolto è tanto più eclatante se si considera che, con il comunicato unitario del 14 giugno, successivo allo sciopero del 30 maggio, FLC CGIL, CISL, UIL, SNALS e GILDA hanno chiesto lo stralcio (e non la modifica) della parte del decreto relativa alla formazione in servizio (oltre a sostanziali modifiche sulle disposizioni relative al reclutamento iniziale). Procedere dritti per la propria strada, ignorando le proteste della maggior parte dei rappresentanti del mondo della scuola, è un chiaro e inequivocabile segnale. E non si dica che gli emendamenti successivi hanno risolto i problemi. La situazione è rimasta sostanzialmente invariata.
L’ultima, ma più importante questione su cu riflettere in questo quadro desolante è quella dei finanziamenti. Il decreto n. 36 del 2022 è relativo a “ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)”. Solo una piccola parte di tali fondi, però, è destinata al comparto Scuola. Per l’istituzione del nuovo sistema di formazione i fondi saranno ricavati sottraendoli alla scuola stessa.
La scuola finanzia la Scuola (di alta formazione).
E lo fa attraverso i tagli alle cattedre preventivati alla luce dei dati relativi al futuro calo demografico.
Nei prossimi anni, nelle nostre classi, ci saranno meno studenti e, alla luce di questo dato, il Governo che cosa decide di fare? Destina i fondi che proverrebbero da quello che negli emendamenti al decreto è definito “l’adeguamento dell’organico dell’autonomia del personale docente conseguente all’andamento demografico, tenuto conto dei flussi migratori” al sovvenzionamento di nuove figure dirigenziali e al finanziamento di tutto l’apparato di formazione che gestiranno. Se non fosse la realtà, sembrerebbe una barzelletta.
Da anni, da sempre, si segnala che per la buona riuscita della pratica educativa è necessaria e indispensabile la riduzione del numero di alunni per classe. La pandemia ha reso noto a quanti ne erano all’oscuro che i nostri alunni sono stipati per ore dentro classi pollaio. Si attivano progetti su progetti (quindi ulteriori investimenti) per ridurre la dispersione scolastica, vengono aperti sportelli di ascolto, si avviano corsi di recupero e/o doposcuola per sostenere quegli studenti che hanno bisogno di un aiuto in più, proliferano continue sigle e diagnosi che dovrebbero aiutare alunni e docenti a personalizzare il percorso di studi e, di fronte alla drammatica previsione di un calo demografico, anziché ridurre il numero di alunni per classe e rendere finalmente la scuola pubblica italiana una scuola democratica, si pensa a far nascere una Scuola di alta formazione di cui nessuno sente il bisogno?
È un latrocinio ai danni dei nostri studenti. È un colpo mortale alla scuola italiana. Una scuola che si regge sulla professionalità e l’abnegazione di un corpo docente che va messo nelle condizioni di occuparsi dell’unica cosa che conta: la formazione umana e intellettuale degli alunni. Finché ci sarà una media così elevata di studenti per classe, farlo in maniera davvero efficace e inclusiva sarà impossibile e chi dice che lo si può fare mente o non ha mai messo piede in una classe.
A fine giugno il decreto 36 entrerà in vigore. Ho cercato di dire no scioperando, informandomi e informando. Il governo va dritto per la sua strada, ma non ha il mio assenso né quello di tantissimi colleghi. La scuola ha bisogno di una riforma che investa nella scuola e non nella Scuola (di alta formazione). Questo noi lo sappiamo e dissentire è ciò che possiamo e dobbiamo fare anche dopo l’approvazione del decreto. Lo dobbiamo a noi stessi, ma soprattutto ai nostri alunni e alle loro famiglie.
Che non si parli di futuro in un Paese che maltratta così le sue migliori risorse.
Irene Muscato
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