Sta facendo discutere il caso di una bambina di dieci anni che è stata mandata a scuola con il niqab, indumento islamico che lascia scoperti solo gli occhi, in una scuola elementare della provincia di Pordenone. Si tratta di una piccola di seconda generazione che frequenta la quarta elementare. Lo riportano PordenoneToday, Open e Ansa.
Dopo averla vista la sua maestra le ha chiesto di tornare a scuola a volto scoperto, cosa che poi è effettivamente successa. Nella scuola elementare ci sono stati già in passato casi simili. Il vicesindaco Alberto Parigi, assessore all’Istruzione, ha spiegato di non aver ricevuto segnalazioni al riguardo. “In ogni caso farò subito accertamenti e se la notizia venisse confermata, il mio primo pensiero deve andare a una bambina costretta nel niqab. Bene ha fatto la maestra a intervenire. Voglio sperare che tutti siano d’accordo sul fatto che nelle nostre scuole non si deve entrare velati, compresi coloro che invocano ogni giorno la laicità e l’emancipazione femminile”, ha affermato.
“Il caso di una bambina di 10 anni che si è presentata con il niqab a scuola a Pordenone è un fatto inaccettabile. Obbligare una bambina di 10 anni ad andare a scuola con l’intero volto coperto, tranne gli occhi, contravviene alle più basilari regole del vivere comune, dei diritti fondamentali dei bambini e dell’identità femminile. Una cosa è la libertà religiosa, un’altra invece è il fondamentalismo religioso imposto su bambine innocenti”. Lo scrive in una nota il senatore e segretario della Lega Fvg Marco Dreosto.
“Dopo questo e altri casi, penso sia arrivato il momento che anche l’Italia prenda iniziative per vietare il niqab a scuola e nei luoghi pubblici, per il rispetto dei diritti delle donne e per la sicurezza pubblica. Ricordo come Francia e Belgio abbiano vietato il niqab nei luoghi pubblici e anche l’Egitto, paese musulmano, ne abbia vietato l’uso a scuola. Presenterò un’iniziativa in Parlamento in questo senso il prima possibile”, conclude il comunicato.
Questo tema è molto dibattuto e divisivo. Mesi fa abbiamo trattato anche il caso relativo degli adulti. Vietare alle donne di indossare il velo islamico sul posto di lavoro non comporta discriminazione. A patto, però, che si faccia lo stesso anche per tutti gli altri simboli di culto. A dirlo è stata la Corte di giustizia europea che ha preso posizione sul dibattito fortemente divisivo tra religione e laicità.
Il parere dell’aula di Lussemburgo arriva a circa 12 mesi da un altro pronunciamento, sollecitato dal tribunale del Lavoro francofono di Bruxelles, posto sulla stessa linea: se il datore di lavoro esige che i dipendenti siano vestiti in modo ‘neutro’, senza esibire alcun segno religioso, filosofico o spirituale in modo evidente, può farlo senza essere accusato di discriminazione. E quindi c’èm una “clausola” da rispettare: quella che la disposizione sia applicata “in maniera generale e indiscriminata”.
La risposta riguarda il ricorso di una donna belga di fede musulmana: nel 2018 la donna si era vista respingere da parte di una società belga che gestisce alloggi popolari la sua domanda per effettuare un tirocinio a causa del suo rifiuto alla richiesta di togliere l’hijab.
Ebbene, per il giudice della Corte Ue, “poiché ogni persona può avere una religione o convinzioni religiose, filosofiche o spirituali”, una disposizione di politica interna generale simile – “che vieta ai dipendenti di manifestare verbalmente, con l’abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose o filosofiche, di qualsiasi tipo” – non costituisce, “nei confronti dei dipendenti che intendono esercitare la loro libertà di religione e di coscienza indossando visibilmente un segno o un indumento con connotazione religiosa, una discriminazione diretta ‘basata sulla religione o sulle convinzioni personali’”.
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