Sulla frequenza scolastica dei bambini nomadi Viale Trastevere accelera i tempi e fa sapere di voler metter in campo tutte le forze possibili: il piano di scolarizzazione dei rom partirà infatti già con l’avvio del nuovo anno scolastico. Per la non facile attuazione, conoscendo le resistenze dei nomadi, il Miur ricorrerà alla collaborazione di tutte le istituzioni ed i soggetti in qualche modo coinvolti con i giovani rom: oltre ai protocolli d’intesa con le associazioni e al coinvolgimento attivo delle scuole (dove si svolgeranno ore supplementari della lingua italiana per i bambini, oltre che formazione specifica di dirigenti scolastici ed insegnanti intesi come “mediatori culturali” in grado di comprendere gli aspetti linguistici e valoriali della cultura rom), nelle ultime ore il responsabile del Miur, Mariastella Gelmini, ha prima confermato che il piano verrà svolto assieme al Ministero dell’interno (il quale realizzerà l’opera di censimento attraverso la tanto discussa operazione delle impronte digitali), e poi che cercherà la collaborazione attiva da parte delle stesse famiglie rom.
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Bimbi rom e la difficile chiave d’accesso per portarli a scuola
“Assieme il Ministero degli interni – ha spiegato detto Gelmini, sollecitata dalla stampa il 26 luglio al termine della presentazione del progetto “Più scuola, meno mafia”, finalizzato al riutilizzo in chiave scolastica dei beni confiscati alle mafie – stiamo procedendo con un censimento preciso dei bimbi rom e poi, e come Ministero dell’istruzione, estenderemo il piano di scolarizzazione che prevede anche la collaborazione con alcune associazioni che si occupano della dispersione scolastica”.
I due Ministeri, assieme all’Osservatorio cui faranno parte tutte le parti coinvolte, cercheranno di portare in aula i tanti, tantissimi, bambini che risiedono stabilmente sul territorio italiano senza frequentare un corso scolastico: anche se di origini nomadi, una buona fetta delle famiglie rom vive ormai stabilmente in alcune aree. Privando però quasi sempre i loro figli, soprattutto dopo la scuola primaria, della frequenza scolastica: tanto è vero che alle superiori va solo un bambino rom ogni cento. Ed anche laddove i giovani nomadi sono formalmente iscritti a scuola le cose non vanno mai molto meglio: in diversi casi, in prevalenza a partire della scuola secondaria inferiore, il numero di assenze dei piccoli rom è infatti superiore a quello delle presenze. Tanto è vero che spesso quello delle assenze diventa l’elemento decisivo in sede di Consiglio di Classe nel non procedere alla promozione dando involontariamente il là all’abbandono definitivo degli stessi dall’ambiente scolastico.
Ora però le cose potrebbero cambiare. Sempre secondo il Ministro Gelmini quello dell’evasione scolastica è “un fenomeno che riguarda non solo le scuole superiori, ma spesso anche la scuola dell’obbligo per questo siamo a stretto contatto con i nostri direttori scolastici regionali e provinciali e con i singoli presidi proprio per garantire la possibilità a questi ragazzi di frequentare la scuola spesso sono bambini privati della loro infanzia, della loro adolescenza e di un diritto costituzionalmente garantito, come quello di studiare”.
Pochi giorni prima, durante un’audizione al Senato davanti ai componenti della Commissione istruzione, lo stesso Ministro aveva confermato l’attuazione del piano “per alzare il numero di presenze in classe degli alunni rom anche attraverso l’aiuto delle famiglie”. Gelmini ed il pool di esperti sanno bene che senza il loro assenso, quello dei genitori, qualsiasi provvedimento, anche coatto, non avrebbe alcuna speranza di riuscita.
Si tratta però di una sfida davvero difficile: come farà il Ministro, peraltro in poche settimane, pur avvalendosi della collaborazione di tutte le forze possibili, a far cambiare idea ai nomadi che lo studio è preliminare alla crescita di qualsiasi individuo ed ancora di più se in giovane età? Quali tipi di “strumenti” intende mettere in atto per riuscire a far arrivare in classe un piccolo rom almeno tre volte a settimana? Non basta infatti censire i nomadi ed avere la conferma che il 90% di loro attorno ai 15 anni marina ormai la scuola stabilmente. Ed anche chiedere genericamente la collaborazione delle famiglie è pressoché inutile, soprattutto perché quasi sempre sono loro stesse le artefici di questa situazione coinvolgendo i piccoli in attività che hanno poco a che vedere con lo studio. Probabilmente i corsi ministeriali sarebbero dovuti essere rivolti prima ancora che ai docenti ed ai presidi, proprio ai genitori rom, tradizionalmente riluttanti a tutto ciò che ha a che fare con la scuola: al di là delle opinioni sulla loro integrazione (per molti impossibile) nel nostro Paese, è un dato incontestabile che gli interessi, le convinzioni, i valori di fondo e le tradizioni che animano questo antico popolo sono assai diversi dai nostri. Come da quelle della grande maggioranza dei Paesi. Ecco perché serve fare opera di mediazione, prima ancora che di “conta”. Proprio per far capire che la convivenza passa soprattutto per l’accettazione delle regole: ed una di queste, forse la prima, è trasmettere loro l’importanza del dovere all’educazione dei figli. Un concetto fondamentale. Senza il quale, senza quindi l’apporto attivo delle famiglie (che al momento “remerebbero contro”) rischia di saltare tutto. Per il responsabile dell’istruzione italiana e per i componenti dell’Osservatorio sui rom si prospetta un lavoro a dir poco in salita.