Nella sua rubrica pubblicata su Il Corriere della Sera il docente e scrittore Alessandro D’Avenia ha fatto una riflessione sul modo con cui recuperiamo le informazioni, soprattutto dopo l’avvento di Google e del digitale, sulla nostra memoria e sulla necessità, della scuola, di fornire più competenze pratiche.
“Sappiamo l’età di un calciatore ma non conosciamo la canzone preferita di chi amiamo. La nostra memoria è piena di informazioni superflue che ci danno scariche di dopamina (cronaca nera e gossip soprattutto) che spingono alla ricerca continua di ‘news’: si parla infatti di infodemia, intossicazione da notizie”, ha esordito.
D’Avenia ha fatto un riferimento al recente fatto di cronaca relativo ai ragazzini che sono riusciti a sopravvivere per giorni bloccati in mezzo alla giungla: “Unici superstiti di un incidente aereo hanno resistito per 40 giorni grazie alla maggiore, Lesly, che li ha guidati seguendo le conoscenze che ha imparato dai nonni indigeni. Come sarebbe andata a un nostro/a tredicenne?”.
“Le conoscenze di Lesly sono diverse dalle nostre, che puntano al controllo della natura più che alla relazione. Se vogliamo sapere il nome di un fiore lo fotografiamo e cerchiamo in rete, non conosciamo le proprietà medicinali o nutritive delle piante, come Lesly”, ha aggiunto, facendo un paragone.
“Ho pensato allora a un ragazzino o ragazzina che in questi giorni affronta l’esame di terza media, e alle conoscenze che ha disposizione per ‘sopravvivere’. Di certo si affiderebbe al cellulare che ha in tasca per mandare la propria posizione. Ma nella giungla non avrebbe gran fortuna… Quel telefono non avrebbe campo e ben presto si scaricherebbe. Non voglio mettere in contrapposizione due stili di vita — forse Lesly avrebbe problemi a orientarsi nella nostra giungla metropolitana — ma in dialogo. Noi ci rapportiamo per lo più alla tecnologia, a cui chiediamo di gestire la realtà con la quale abbiamo quindi un rapporto ‘mediato’ e ‘mediatico’, Lesly attinge invece a un rapporto ‘immediato’ e ‘primario’, di collaborazione con le cose, la sua memoria è vitale non digitale”, ha aggiunto.
Cosa potrebbe fare la scuola per ovviare a tutto ciò? “Sarebbe interessante bilanciare una scuola basata su conoscenze teoriche con una sapienza pratica del mondo, una relazione più ‘viva’ con la vita. Vedo le famiglie in cerca di campi estivi per i figli dopo la fine delle scuole, e potrebbe essere invece un servizio scolastico. Non dimenticherò mai, all’inizio della mia professione di insegnante, i tre anni alle medie. Ero a Roma e leggevamo l’Eneide, e il collega di scienze si inventò di fare insieme ai ragazzi un orto con tutte le piante citate da Virgilio: l’Eneide si impresse nella loro memoria in modo indelebile, fecero con le loro mani l’orto del poema. Quel poco che so del creato mi dona continua meraviglia, l’ho imparato nella campagna in cui amavo girare da bambino tra orti, alberi, animali e dove ho visto fare il pane, l’olio, i sistemi di irrigazione”.
“Un rapporto più ‘corporeo’ e non solo ‘mentale’ con le cose cresce bambini più sereni, fiduciosi nella vita e non dipendenti dalla mediazione e iperstimolazione digitale. Mi auguro che questo periodo di vacanze possa essere per i ragazzi un’occasione per recuperare un po’ di questo rapporto con la vita: toccare meno lo schermo e più la diversa consistenza delle cortecce degli alberi, piantare anche solo del basilico per la pasta e imparare a raccoglierlo, bere acqua di fonte, distinguere le farfalle, gustare le more direttamente da un rovo… Tutti gesti che, coinvolgendo i cinque sensi, guariscono da quella deriva che porta a pensare di non avere più il corpo e che non ce l’abbiano gli altri”, ha concluso Alessandro D’Avenia.
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