Abbiamo già parlato del fenomeno Blue Whale, il gioco, si fa per dire, che viene dalla Russia e che spinge al suicidio gli adolescenti parteciapnti adescati sulla rete.
Il fenomeno è senza dubbio preoccupante, dato che già si sono registrate vittime che, una volta superate le prove, hanno “superato”, anche l’ultima prova, ovvero quella del suicidio.
La vicenda sta lasciando basiti genitori e insegnanti, e sicuramente, come riporta Alex Corlazzoli sul suo blog de Il Fatto Quotidiano, “aver parlato di Blue Whale ha certamente un ‘merito’: quello di aver fatto suonare un campanello d’allarme sul malessere dei nostri ragazzi. La cronaca ha il vizio di farci parlare di un fenomeno per qualche giorno per poi farcelo scordare con uno nuovo, ma il “male” dei nostri ragazzi non conosce data, giorno e ora”.
Lo stesso insegnante, racconta però di altri casi di autolesionismo fisico e psicologico, non si comprende se legati direttamente al Blue Whale: “qualche mese fa una mamma mi ha contattato su Facebook per chiedermi aiuto perché aveva scoperto che sua figlia attraverso un altro social, Wattpad, era entrata in contatto con una coetanea che la incitava a tagliarsi”.
Il pensiero di queste ultime settimane è molto confuso, pauroso e fumoso, quel fumo che ti oscura la capacità di riflettere e farsi un’idea diversa dai soliti (giustissimi) luoghi comuni: “ma dove siamo finiti”, “in che società viviamo?”, ecc…
Ora però, proponiamo una piccola riflessione: di chi sarà mai la colpa di tutto questo? Dei giovani? Delle nuove tecnologie? Dei genitori? Oppure degli insegnanti?
Andare a caccia delle streghe risulta talmente inutile che infatti, rinunciamo a cercare un colpevole.
Forse è meglio capire come risolvere il problema, anziché trovare chi lo ha creato e soprattutto sottolineare il fatto che questi giochi, questi tagli sulle braccia, questi suicidi, non sono svaghi di adolescenti annoiati dalla società in cui vivono, ma sono vere e proprie richieste d’aiuto che lanciano, quasi inconsapevolmente, ai genitori, agli insegnanti e a tutti, nessuno escluso.
Certo, in prima linea dovrebbe essere la famiglia a farsi carico del problema e tentare di estirpare questa deriva interiore dei ragazzi, ma anche la scuola dovrebbe essere più presente: “a parlare di Blue Whale non dovevano essere le Iene, ma la scuola”, scrive ancora Corlazzoli che chiude con un monito: “abbiamo bisogno di maestri/e e professori/professoresse che sappiano essere uomini e donne in grado di guardare negli occhi quando insegnano, aperti nel cogliere il malessere, capaci di intercettare, desiderosi, per primi, di formare e informarsi.
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