Le parole di fuoco appena espresse dal ministro Bianchi sulla pratica della bocciatura nella scuola dell’obbligo riaprono un drammatico dilemma quasi shakespeariano. Dilemma che si ipostatizza nelle posizioni, spesso agli antipodi, presenti in uno stesso consiglio di classe. Dove non è difficile trovare, da un lato, chi inneggia ai sani valori di serietà della scuola di una volta e vede nella bocciatura una sorta di robusto strumento di giustizia “retributiva” e chi, all’opposto, giudica la semplice proposta di fermare l’alunno per un anno appena un paio di tacche al di sotto dei crimini contro l’umanità. Difficile far dialogare assunti ideologici così radicati.
Affidiamoci allora, speranzosi, alle evidenze scientifiche. Cosa dicono? Le meta-analisi compiute negli ultimi decenni sulla bocciatura riportano dati inequivocabili: essa rientra fra le pochissime scelte didattiche ad avere un effect size negativo (-0.13), cioè ad avere una ampiezza di efficacia al di sotto dello zero sul percorso di apprendimento degli alunni (il cambio scuola ha un effect size ancora più basso: -0.34).
In realtà, non è lo strumento in sé il problema, ma l’uso che se ne fa e l’atteggiamento che c’è dietro tale uso. La non ammissione alla classe successiva non è necessariamente una opzione antipedagogica, se adottata da docenti che hanno effettivamente esperito tutte le carte didattico-educative praticabili con lo studente super disimpegnato, innanzitutto in termini di qualità della relazione educativa, ma anche attraverso una grande diversificazione e personalizzazione delle metodologie adottate e una inesauribile ricerca del punto strategico di leva per innescare il sospirato cambiamento.
Lo studente che sa (perché lo sa bene: magari i genitori no, ma lui sì) che gli insegnanti hanno fatto davvero il possibile e l’impossibile per motivarlo e aiutarlo durante l’anno, non subisce alcun trauma psicologico irreversibile dal suo dover ripetere l’anno (che comunque non è un fatto indolore). Quando del resto gli si pone la fondamentale domanda in chiave autovalutativa: “Se tu fossi al nostro posto, cosa faresti in questo caso e perché?”, la risposta, quasi sempre onesta, accompagnata spesso da un sorriso un po’ triste, è che non si promuoverebbe, perché non ha fatto niente e l’anno successivo farebbe probabilmente lo stesso.
C’è poi da aggiungere qualcosa di cui si parla poco e cioè che l’alunno che non ha studiato e seguito quasi mai, l’anno lo ha saltato comunque. Anche nell’ipotesi in cui venga promosso, di fatto, quell’anno lo “ha perso”. E’ questo il vero dramma; questa è già dispersione. In realtà, se il contesto educativo è adeguato, l’alunno respinto può trovare l’occasione per riprendere temi, attività, stimoli, occasioni di crescita che altrimenti (se passasse avanti alla classe successiva come per una sorta di “oblio tombale” delle sue lacune) perderebbe magari per sempre.
A ben vedere, ciò che va assolutamente evitata è la trappola della bocciatura come soluzione di default, liquidatoria, al problema della demotivazione (“Non studia, quindi lo bocciamo! Se l’è voluta lui!”), senza un percorso sufficientemente serio, condiviso con gli altri insegnanti e con l’alunno stesso, creativo, resiliente, perfino “cocciuto”, di presa in cura dello studente, a dispetto dei suoi continui risultati negativi. Quella stessa cocciutaggine e creatività che il docente manifesterebbe “naturalmente” se al posto di quell’alunno a rischio dispersione ci fosse suo figlio.
Il punto è se la scuola è costruita o no per gli alunni più in difficoltà, se sa dotarsi degli strumenti necessari per salvarne quanti più possibili dal disagio e dal fallimento scolastico, dalla bassa autostima e dall’impotenza appresa, dall’impreparazione culturale alla vita.
Sulla questione “dispersione” qui si esprime forse un punto ben più dirimente rispetto a quello della bocciatura in sé.