Boicottaggio prove Invalsi? Conseguenza di un problema di comunicazione
È scattata finalmente l’ora “x” delle prove Invalsi. Le notizie di boicottaggio non mancano, le smentite neppure. I Cobas, ovvero i “contro” più accaniti, forniscono cifre alte di adesione alla protesta in alcune città, dal 20 al 30%. Ma il Miur con un comunicato si affretta a rispondere che su un campione di 2.300 classi, solo 3 non hanno svolto la prova, e quindi “è logico ritenere che, su tutto il territorio nazionale, la percentuale delle classi dove il test non è stato svolto sia dello 0,13%”.
Certo che, soprattutto nella secondaria di II grado, i malumori non sono mancati, e neppure le prese di posizione da parte di alcuni collegi docenti, pur definite “improprie” dal Ministero. Perfino qualche associazione di genitori ha espresso ufficialmente il suo dissenso, accusando in particolare l’ “assoluta mancanza di informazione alle famiglie”.
Già, la mancanza di comunicazione: fuori dalle conferenze di servizio per addetti ai lavori, non sono arrivate in tempo utile da fonte istituzionale quelle argomentazioni necessarie a fare chiarezza, e si è lasciato che per mesi montassero le polemiche.
Sul piano giuridico, le prime precisazioni del Miur arrivano solo con la Nota del 20 aprile 2011. In buona sostanza, la tesi è che la rilevazione degli apprendimenti da parte del Servizio nazionale di valutazione costituisce un indispensabile strumento di sviluppo di una “autonomia responsabile”, finalizzata all’autovalutazione, al miglioramento e a “rendere conto dei risultati ottenuti”, come previsto proprio dal Regolamento 275/1999. La Nota del direttore generale Carmela Palumbo cerca altresì di smontare una delle obiezioni più consistenti opposte da tutti i sindacati: l’impegno “aggiuntivo” del personale va in qualche modo previsto nel piano delle attività e riconosciuto economicamente.
Sul piano metodologico, che pure aveva suscitato non poche perplessità, solo in data 19 aprile e solo in un documento destinato agli operatori (il Manuale per il somministratore), dall’Invalsi arrivano dei chiarimenti che probabilmente dovevano essere dati prima e attraverso altri canali di diffusione. Si ammette che le prove standardizzate in quanto tali hanno dei limiti, tuttavia sono in linea con le esperienze più avanzate a livello internazionale e comunque “non si pongono in antitesi con la valutazione formativa e sommativa quotidianamente realizzata all’interno delle scuole, ma vogliono solo rappresentare un utile punto di riferimento esterno per integrare gli elementi di valutazione attualmente esistenti”. Si punta inoltre a fornire in prospettiva anche valutazioni del valore aggiunto apportato dalla singola scuola, e in ultima analisi a contribuire al miglioramento del sistema scolastico e alla “presa di decisioni di politica educativa su una base razionale”.
Restava un altro margine di ambiguità: bisognava “sgomberare il campo dall’idea che valutazione coincida con controllo, sanzione, giudizio, quindi con un significato negativo, quasi minaccioso” e “costruire una cultura della valutazione sufficientemente condivisa anche all’interno della scuola, oltre che dall’opinione pubblica”, come ben argomentato da Giancarlo Cerini in un articolo del 29/4/2011.
Invece solo nel giorno delle prove, il 10 maggio 2011, in una intervista al Messaggero, il ministro Gelmini afferma con decisione che certi timori sulle prove Invalsi sono infondati: “Voglio che sia chiaro che con la valutazione non vogliamo punire nessuno, ma apportare miglioramenti al sistema”. Ma allora non si poteva fare prima un adeguato “piano di comunicazione”?