Giusto premiare con soldi gli studenti con la media più alta? Il loro premio, se così posso chiamarlo, non è già tutto nella valutazione? E non si rischia di mercificare il cammino formativo? E a scuola, ancora, non insistiamo anzitutto sul valore del percorso culturale ed educativo, e non sui momentanei risultati, ridotti a performance competitiva?
Sono alcune delle domande che stanno accompagnando la lettura di quanto sta avvenendo nell’istituto Scarcerle di Padova. I premi previsti sono presto detti: cento euro a chi raggiunge la media del nove e posti riservati nei progetti Erasmus, cioè nei viaggi studio all’estero.
Per cui, per paradosso, chi ha già le medie alte viene favorito anche nei viaggi all’estero.
Il motivo sarebbe dare peso all’impegno, come se un risultato a scuola fosse solo espressione dello sforzo personale, e non, prima ancora, di un contesto anzitutto famigliare di sostegno e stimolo continuo alla formazione individuale.
A prima vista, per alcuni, una iniziativa ovvia e giusta. Mentre, per altri, introdurrebbe un vulnus che è lontano dal compito primo della scuola, che è riassunto, nella logica della valutazione e delle indagini Invalsi, nel concetto di “valore aggiunto”, non nella assolutizzazione di una performance. La quale rimanda ad un contesto di tipo competitivo, economico, non cooperativo, come è invece la natura della scuola. Valore, questo, tante volte ripreso durante la stagione della DAD, cioè della didattica a distanza, o, più tardi, della didattica integrata.
E’ un vulnus che ritroviamo nella titolazione stessa del ministero dell’istruzione, col rimando al concetto di merito, come se fosse un dato prestazionale, come è ad esempio in tanti ambienti del mondo del lavoro.
L’ambito educativo e formativo, cioè, è diverso, ed il concetto di merito mal si sposa col concetto di meritocrazia. Sapendo comunque che definire il merito non è facile, tanto da consentire diverse sottolineature o interpretazioni.
Pensiamo, per capirci, a quante variabili entrano in una valutazione, oltre al risultato in sé, ad esempio, di un compito in classe o di una interrogazione o di una ricerca o di una esperienza laboratoriale o di un lavoro di gruppo.
Sì, parliamo di talento, ma sappiamo che non basta citare la parola perché siano poi sia chiaro il senso ed il contesto. Lo stesso per quanto riguarda i termini capacità, attitudine, impegno, passione, risultato, criticità, ecc..
Chi ha esperienza di una valutazione capisce le cose che sto tentando di chiarire. Per qualsiasi valutazione. Non solo a scuola.
Se la questione è davvero complessa, il compito di assegnare un voto, a scuola come all’università, è sì un dovere, ma sappiamo che non è per niente facile. E che tante valutazioni, a prima vista ineccepibili, rischiano poi di rivelarsi frettolose, se non sbagliate.
E’ per questa ragione che a scuola distinguiamo tra valutazione formativa e valutazione sommativa. Con non poche difficoltà, durante soprattutto gli scrutini, quando si trovano ancora oggi docenti che si nascondono dietro alle medie aritmetiche, con tabelle di valutazione che sembrano degli algoritmi matematistici. Come se la matematica, che rimane comunque una lettura parziale della realtà formativa, potesse dire e pretendere una qualche oggettività.
Il rimando quindi alla media dei voti è un ulteriore vulnus, mentre dovrebbe essere premiato, semmai, il cammino formativo nel suo complesso: se uno studente alle prove d’ingresso di inizio dell’anno raggiunge un voto incerto, per poi crescere e raggiungere buoni risultati, non dovrebbe essere questo riconosciuto, anzitutto?
Insomma, è facile insegnare ai cosiddetti “bravi”, e poi premiarli, come in questo caso, con i soldi di tutti. Difficile tutto il resto, che è, in verità, il cuore primo della scuola.