Difficoltà dei ragazzi ad esprimere il disagio, come è accaduto alla bambina di Pordenone, che a 12 anni si è lanciata dal balcone di casa, fortunatamente senza gravi conseguenza, perché “non ce la facevo a rientrare a scuola”.
Secondo l’Istat, nel 2014 oltre il 50% degli 11-17enni ha subìto qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di altri ragazzi o ragazze nei 12 mesi precedenti. Il 19,8% è vittima assidua di una delle ‘tipiche’ azioni di bullismo, cioè le subisce più volte al mese. Per il 9,1% gli atti di prepotenza si ripetono con cadenza settimanale.
“Dati sul passato non ce ne sono”, spiega l’esperta psicologa Il Redattore Sociale. “Sicuramente però, quando questi casi si verificano, non possiamo non agire. Ci parlano di un disagio forte, che evidentemente non ha trovato altro modo per esprimersi che questo: un gesto estremo. E il problema principale credo sia questo: la difficoltà di esprimere il disagio”.
Un disagio che “in parte, seppur certo non del tutto, deriva dalle modalità comunicative che sono cambiate: i giovani comunicano sempre più tramite i social network e WhatsApp: lo schermo protegge da confronto diretto, ma al tempo stesso non educa a questo confronto. E quando devo comunicare un disagio, ho bisogno di una comunicazione diretta. Ho bisogno di parlare: con un genitore, con un insegnante, con un amico. Il problema è che le vittime del bullismo spesso si percepiscono inadeguate, sbagliate e quindi fanno fatica a parlare perché pensano che il problema sia loro. Per questo il mio consiglio è innanzitutto di parlare: insegnanti e genitori facciano capire che c’è la possibilità di aprirsi. E veicolino il messaggio che anche il bullo ha un disagio, perché un ragazzo che ha bisogno di umiliare e atterrire un suo compagno esprime un dolore e ha bisogno di aiuto. E’ bene quindi che si parli della fragilità del “bullo”, perché anche le vittime si sentano meno vittime e comprendano che colui che percepiscono come invincibile è in realtà pieno di debolezze.”
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“Spesso per i genitori è difficile cogliere il disagio nel proprio figlio. Assisto a fenomeni opposti, oscillanti tra l’iperprotezione e il lassismo, accomunati però dalla difficoltà di ammettere “mio figlio sta male”. Perché il sottotitolo di questo è: “io ho sbagliato”. Sappiamo invece che il disagio è sempre multifattoriale, è passata l’epoca in cui si attribuivano le “colpe”, ora al padre, ora alla madre, ora a entrambi. Adesso sappiamo che i fattori sono tanti, ma resta la difficoltà dei genitori di riconoscere il disagio dei propri figli, a cui si aggiunge anche quella di controllare le loro relazioni, sempre più virtuali, fatte di messaggi che si possono nascondere, o cancellare. Che fare allora, come genitori? Non certo controllare, perché essere presenti non significa questo. Piuttosto far capire al figlio o alla figlia che può parlare, dando il messaggio “Ti capisco ma non ti giudico”. Spesso invece, di fronte al disagio espresso da un figlio, il padre o la madre tende a esprimere un giudizio, o a dare subito la soluzione: “Non farti prendere in giro”. Ma se il figlio non ce la fa, si sentirà inadeguato. Il dialogo deve essere invece accettante e comprensivo: “so quanto è faticoso, ma…”. E poi i genitori devono fare rete con la scuola, non accanirsi contro questa, distribuendo le colpe tra insegnanti e studenti”.
“Anche la scuola è in difficoltà quando si sente giudicata, ma in generale mi pare sia più sensibile a queste tematiche. E’ vero che ci sono tanti progetti e iniziative che possono essere attivati nelle classi per prevenire il fenomeno: ma credo che ancor più sia importante creare momenti di dialogo e confronto con gli studenti. Invito quindi gli insegnanti a dedicare spazio e tempo a discutere di questi temi, aiutandosi anche con i tanti testi a loro disposizione.
Il problema di base tuttavia, spiega la psicologa sarebbe soprattutto “la vulnerabilità, che peraltro accomuna bullo e vittima. Soprattutto, c’è una maggiore fragilità e difficoltà nel reggere le frustrazioni rispetto al passato. I bisogni oggi vengono soddisfatti subito, ciò che desideriamo possiamo averlo senza attendere, non siamo abituati a procrastinare la soddisfazione del desiderio. Questo non educa a reggere la frustrazione, non insegna a dire: “se non posso averlo oggi, lo avrò domani”. E lo stesso accade con le emozioni: appena provano un’ emozione spiacevole come la presa in giro, fanno fatica a sopportare e ad aspettare che passi. E questo li rende estremamente vulnerabili. Tanto da compiere gesti come quello della bambina di Pordenone”.
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