Buona scuola di Renzi: dal sistema nazionale di istruzione all’arcipelago scuole

L’idea che in un paese democratico la scuola sia il luogo di costruzione della cittadinanza democratica e che a tutti i cittadini debba essere garantito un uguale accesso al diritto allo studio, dovrebbe essere l’architrave intorno al quale il sistema di istruzione costruisce la sua unitarietà. Le finalità del disegno di legge di riforma della scuola sono quelle di “garantire la massima flessibilità, diversificazione, efficienza ed efficacia del sistema scolastico[…] il potenziamento delle conoscenze e delle competenze degli studenti e l’apertura al territorio”, dando piena attuazione all’autonomia scolastica.

L’autonomia, come capacità di rispondere al meglio alle esigenze formative e di valorizzare le risorse di un territorio, è un valore importante ma affinché si realizzi è necessario fornire alle scuole adeguate risorse umane e finanziarie. Attualmente, nonostante le risorse previste dal Ddl, la spesa dell’Italia per l’istruzione resta al di sotto della media europea, per allinearsi alla quale occorrono notevoli investimenti, che il governo non vuole o ritiene di non essere in condizione di effettuare, partendo dall’assunto, contenuto nel documento governativo de “La Buona scuola”, secondo il quale le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a rispondere a pieno ai bisogni delle scuole. In coerenza con questa impostazione il Ddl prevede la concessione di crediti d’imposta a cittadini, enti non economici e imprese che fanno elargizioni alle scuole, alle quali è possibile, inoltre, destinare il 5 per mille della dichiarazione dei redditi. In questo mo do l’intervento dei privati sopperirebbe ai mancati investimenti pubblici, con il rischio di creare forti diseguaglianze tra le scuole di aree economico- sociali differenti, dal momento che la ricchezza dell’offerta formativa di una scuola dipenderà dalla forza e dalla generosità degli attori sociali ed economici di un territorio e dalla capacità dei dirigenti scolastici di raccogliere fondi. In questo scenario, l’obiettivo della promozione dell’autonomia scolastica diventa la foglia di fico dietro la quale si nasconde il parziale ritiro dello stato dal terreno dell’istruzione e così, in nome della “massima differenziazione” dell’offerta formativa delle scuole, sarà perfettamente conforme alla legge il fatto che i ragazzi di un istituto professionale di Quartoggiaro abbiano diverse e minori opportunità formative rispetto a quelli di un liceo dei Parioli, con buona pace dell’uguaglianza d’accesso di tutti i cittadini al diritto allo studio e del cara ttere nazionale e unitario del sistema d’istruzione. Il Ddl affida la realizzazione dell’autonomia al dirigente scolastico, che sceglierà e valuterà i docenti della propria scuola. Il dirigente di una scuola selezionerà gli insegnanti da un albo territoriale dopo avere appurato la conformità dei loro curricula a dei criteri da lui stesso individuati. I docenti scelti insegneranno in quella scuola per tre anni, al termine dei quali potranno essere riconfermati oppure dovranno trovare un’altra scuola interessata al loro profilo professionali. Il Ddl istituzionalizza così una sorta di precariato a tempo indeterminato degli insegnanti, i quali dovranno essere pronti ogni tre anni a raccogliere libri e matite e a cambiare scuola e, come una sorta di freelance dell’istruzione, andranno in giro a proporre ai dirigenti scolastici il book dei loro lavori e a tentare di convincerli dell’ incomparabile qualità della loro professionalità. Il Ddl, così, trasforma lo status giuridico dei docenti, spingendoli in un’inedita area dove il funzionario pubblico è per certi versi simile al dipendente privato che risponde del suo operato al manager dell’azienda e dove la stessa libertà di insegnamento può essere a rischio. Del resto il Ddl attribuisce al dirigente la prerogativa di assegnare un salario accessorio ai migliori tra i suoi insegnanti, valutati in base a non ben precisati criteri di misurazione della qualità della loro azione didattica. Questo meccanismo di valorizzazione del merito introduce un’ulteriore perplessità circa la tenuta del carattere unitario del sistema nazionale d’istruzione.

Se l’obiettivo del legislatore è di migliorare la qualità dell’intero sistema , egli dovrebbe fissare degli standard nazionali in base ai quali valutare ed eventualmente premiare gli insegnanti e non lasciare ai singoli dirigenti un potere discrezionale nella individuazione dei criteri di valutazione. Il punto cruciale su cui dovremmo riflettere è che l’istruzione non è un mercato sulla cui piazza le scuole cercano di vendere il loro prodotto e che gli insegnanti non sono professionisti in competizione tra loro per strappare quote di salario accessorio. L’istruzione è cooperazione e non competizione.

I docenti di una classe o di una scuola sono una squadra di educatori che lavorano insieme per promuovere negli alunni lo sviluppo dell’intelligenza critica, la creatività, il senso civico. Ecco allora, tornando sul tema del merito, che un sistema di valutazione degli insegnanti dovrebbe tenere conto anche della dimensione collegiale, premiando, ad esempio, il lavoro dei consigli di classe.

Tuttavia, proprio la collegialità viene messa all’angolo dal Ddl a favore di una scuola gerarchizzata, incentrata sulla figura del dirigente scolastico le cui prerogative, notevolmente rafforzate, non sono al momento controbilanciate da adeguati contrappesi. Al dirigente scola stico viene, inoltre, affidato il compito di elaborare il piano dell’offerta formativa della scuola, vale a dire la sua carta d’identità culturale, educativa,progettuale. La normativa vigente, invece, affida al collegio dei docenti la responsabilità di elaborare tale piano per gli aspetti pedagogici, tenuto conto dei pareri e delle proposte degli organismi e associazioni di genitori e studenti. Ed è giusto che sia così se pensiamo alla scuola come comunità educante, che individua gli obiettivi didattico- formativi da raggiungere. In conclusione, con il Ddl, la scuola,che dovrebbe essere una palestra di pratica della democrazia- anzi andrebbero aperti maggiori spazi di partecipazione di docenti, personale amministrativo e ausiliare e degli studenti- rischia di diventare il luogo dove la democrazia ammaina la sua bandiera. 

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