Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 32113 del 31 ottobre 2022) ripropone un tema spesso dibattuto, ma mai seriamente affrontato in campo scolastico.
L’apertura delle scuole in orario pomeridiano – da fatto saltuario e occasionale- è ormai una regola, con gli insegnanti impegnati in lezioni frontali, corsi di formazione, aggiornamento, riunioni di dipartimento, progetti, interventi di recupero e/o approfondimento.
Anche il personale ATA risente ovviamente della dilatazione degli orari di apertura e viene impiegato in turni spesso superiori alle sei ore giornaliere.
Sorge dunque il problema della consumazione del pasto, ma – a differenza di quanto si verifica in altri comparti- il datore di lavoro pubblico sembra ignorarlo.
La Corte premette che ”le modalità e la durata della pausa sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro e, in difetto di disciplina collettiva, la durata non è inferiore a dieci minuti e la collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo”.
Il Decreto Legislativo 8 aprile 2003 n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), prevede appunto un intervallo per pausa “qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto”.
Nel caso del personale Ata, impegnato in un orario “medio” di sei ore giornaliere (con un massimo di 9 ore), il CCNL prevede di una pausa di almeno 30 minuti “a richiesta del dipendente” qualora si superino le sei ore continuative, mentre è prevista una pausa “obbligatoria” in caso di orario continuativo superiore ale 7 ore e 12 minuti “al fine del recupero delle energie psicofisiche e dell’eventuale consumazione del pasto”.
La Corte ha ricordato che già in altre occasioni aveva affermato che l’attribuzione del buono pasto è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l’attività lavorativa.
La fruizione del buono pasto è dunque “condizionata all’effettuazione della pausa pranzo” che, a sua volta, presuppone solo che il lavoratore, osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato”.
E ciò, indipendentemente da una formale richiesta dei lavoratori di fruire del servizio mensa fuori dell’orario di lavoro.
Infatti, la giurisprudenza riconosce il diritto ai buoni pasto sia nel caso in cui il lavoratore sia impegnato nel lavoro, sia nel caso in cui abbia terminato di lavorare, ma i tempi di percorrenza non gli consentano di raggiungere la propria abitazione per poter consumare il pasto.
Va innanzi tutto precisato che il caso affrontato si riferiva al settore della sanità.
Tuttavia, la normativa richiamata e il principio di diritto affermato non possono che avere implicazioni di carattere generale.
E ciò, tanto nel caso dei docenti che nel caso del personale ATA.
Sarebbe perciò opportuno che la questione venga affrontata organicamente in sede di contrattazione collettiva alla luce del principio affermato dalla Corte.
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