«Insegno da molti anni e, professionalmente, sono sempre stata tranquilla e soddisfatta. (…) Mi trovo in piena crisi: ho enormi difficoltà di concentrazione e mi dimentico spesso argomenti che invece conosco bene. Le lezioni in classe sono diventate una tortura, per non parlare della correzione dei compiti. Sono sempre stanca e ho l’impressione di “non farcela”». È solo una delle tantissime richieste di aiuto, che il dottor Vittorio Lodolo D’Oria riceve da molti anni, riportate nel suo libro “La Scuola Paziente. Riflessioni in famiglia” (Alpes, 2009).
Da un quarto di secolo il dottor D’Oria studia e cura il DMP (Disagio Mentale Professionale) degli insegnanti. Fenomeno di cui troppo poco si parla: forse anche perché sui docenti delle scuole deve continuare a gravare il pregiudizio generalizzato che dipinge il docente come un “non lavoratore”, uno che fatica poco e per poche ore, fa molte vacanze, non rischia la salute… e «guadagna anche troppo per quello che fa», come ebbe dire un ministro della Repubblica. Pregiudizio che consente allo Stato di risparmiare sul salario dei docenti stessi (ormai prossimi alla fame se lo stipendio è la loro unica fonte di reddito).
La depressione è una malattia molto seria. La conosceva bene persino Winston Churchill, che la soprannominò “il cane nero”, essendone afflitto al punto da passare settimane a letto senza aver voglia di fare più nulla. Ne soffrirono anche Ernest Hemingway, Primo Levi, Indro Montanelli, Cesare Pavese, Michelangelo Buonarroti, Vincent Van Gogh, Carlo V, Fëdor Dostoevskij. Vergognarsene, dunque, non ha davvero senso. Anche perché colpisce le persone più intelligenti e sensibili (e infatti affligge le donne in numero leggermente maggiore degli uomini, i quali però se ne ammalano nella stessa percentuale delle donne se insegnano!).
Dovrebbe semmai vergognarsene una società che carica sempre più sulle spalle dei docenti — già gravati da una professione di per sé difficile e dal senso di responsabilità tipico di chi la sceglie — incombenze da genitori (come quella dell’educazione di base, ormai quasi assente), da assistenti sociali, da psicologi. La riduzione progressiva della spesa pubblica per l’istruzione ha portato nell’ultimo trentennio gli insegnanti della Penisola a lavorare il doppio, il triplo del dovuto, in condizioni proibitive per chiunque: classi di 30 alunni, troppo calde o troppo fredde, e dall’aria irrespirabile; riduzione delle ore di insegnamento, col conseguente aumento delle classi affidate ad ogni docente; delega alla Scuola della soluzione di qualsiasi problema sociale; progressiva estensione del mansionario a compiti burocratici prima affidati al personale amministrativo, e che poco hanno a che fare con la funzione docente; verticismo aziendalistico, che li gerarchizza dividendoli, isolandoli, mettendoli in competizione tra loro.
Risultato: più di metà degli insegnanti in malattia presentano patologie psichiatriche, tre quarti delle quali di tipo ansioso-depressivo. È un caso? È la dimostrazione che tutte le persone con disagio mentale scelgono di insegnare? O non è semmai vero il contrario, ossia che il mantenimento dell’equilibrio psicofisico non è facilitato dalle condizioni concrete, in cui i docenti (quasi tutti di genere femminile) devono svolgere la propria professione, altrimenti meravigliosa?
Giuridicamente l’amministrazione scolastica è responsabile della valutazione e della prevenzione dello “stress lavoro-correlato”: lo stabilisce l’articolo 28 del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro). Nella realtà, poco o nulla si fa in tal senso nelle scuole, se non riempire periodicamente un modulo per il monitoraggio “general generico” del fenomeno, dal quale tutto risulta sempre rientrare nella norma. Eppure da anni si attendono — invano — dati ministeriali in merito al burnout degli insegnanti ed alla sua prevenzione.
Alimentano il logorio della categoria le continue “riforme”: quelle pensate, quelle annunciate e quelle realizzate, che (casualmente?) non mirano mai al miglioramento delle condizioni materiali in cui l’insegnamento si svolge. Purtuttavia si richiede sempre più ai docenti di individualizzare la didattica, mentre aumentano i casi di BES, DSA, disabilità, e cala il numero dei docenti di sostegno. Genitori sempre più pretenziosi delegano ai docenti la funzione educativa, salvo poi rimproverare ai docenti stessi di esserne incapaci. La remunerazione, inferiore a quella degli operatori ecologici (con tutto il rispetto per l’importante funzione di questi ultimi) non aiuta i docenti a sentirsi ripagati della scarsa considerazione sociale, del pendolarismo di molti, della precarietà di circa un terzo di loro, delle scarse risorse didattiche a disposizione. Così come non li aiuta la pretesa di costringerli a cambiare totalmente il proprio modo di concepire la didattica, a fronte della continua svalutazione delle conoscenze a vantaggio di “competenze” minimali, aziendalistiche, esecutive.
Ecco perché molti insegnanti soffrono l’inizio di ogni nuovo anno scolastico, e sempre più spesso si trovano a dire a se stessi «Non vorrei essere qui», senza riuscire a ritrovare l’entusiasmo che li spinse un tempo a scegliere il mestiere più bello del mondo. Entusiasmo che non ritrovano certo al pensiero di dover insegnare fino alla soglia dei 70 anni.
Dobbiamo pertanto chiederci: in che futuro può sperare un Paese che ha deciso di trattare così le persone cui affida i propri figli? Riuscirà lo Stivale a comprendere che un docente è più utile al suo popolo che non un calciatore o un divo del trap?
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