Andrea Gavosto, presidente della Fondazione Agnelli, scrive una lettera al Corriere della Sera, esternando la sua opinione intorno alla necessità di cambiare gli esami di stato così come vengono svolti oggi. Anche la nostra testata si sta occupando ello stesso tema, proponendo ai suoi lettori di votare proprio sul quesito posto: sono utili questi esami?
CARO direttore, la stagione degli esami è iniziata: quello di terza media è in corso, la maturità comincia oggi. Come tutti gli anni, ci si torna a chiedere se il nostro sistema di verifica degli esiti scolastici — scrutini di fine anno, con debiti a settembre per chi zoppica in qualche materia, ed esami al termine del ciclo — funzioni o meno. La questione quest’anno è particolarmente calda, poiché il governo dovrebbe approvare a breve un decreto che riforma la valutazione degli studenti, come prevede la legge sulla Buona Scuola. Da quel che sappiamo, tre sono i capisaldi del decreto: alle primarie, la sostituzione dei voti con lettere da A a E, all’americana; sempre alle primarie, l’abolizione — se non in presenza di un numero eccezionale di assenze — delle bocciature, che raramente servono a rimettere in carreggiata bambini con difficoltà scolastiche, con l’introduzione di corsi di recupero obbligatori; infine, l’eliminazione delle prove Invalsi dall’esame di terza media. L’Invalsi dovrà, inoltre, certificare la conoscenza dell’inglese e introdurre in via definitiva le prove di italiano e matematica all’ultimo anno delle superiori, anche in questo caso al di fuori dell’esame di Stato.
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La scelta di escludere le prove Invalsi dall’esame è giusta, per almeno due ragioni. Primo, sappiamo che quelle di terza media, per il fatto di concorrere al voto finale, hanno alimentato comportamenti disonesti di studenti e docenti, talvolta uniti nel tentativo di “barare”, purtroppo spesso con successo. Secondo, l’inclusione nell’esame di Stato ne ha modificato natura e scopo. Va ricordato che le prove Invalsi dovrebbero, infatti, servire a valutare non tanto gli studenti, ma — attraverso i loro esiti in alcune competenze essenziali — la qualità delle scuole e del sistema scolastico nel suo complesso. Invece, oggi sono diventate quasi una materia come le altre, con lezioni dedicate, eserciziari, affannose richieste delle famiglie di preparazioni specifiche. Non stupisce quindi che il loro snaturamento abbia creato ostilità in gran parte dell’opinione pubblica, a cui si è aggiunto il boicottaggio da parte di docenti e studenti, che negli ultimi due anni ne ha gravemente compromesso le capacità diagnostiche. Se alle prove Invalsi non si fa fare il loro mestiere, quello per cui sono nate in origine, rischiamo di perdere definitivamente l’unico strumento per confrontare in modo omogeneo la qualità di scuole diverse, minando l’intero castello della valutazione: ben venga, quindi, un ripensamento su quando farle.
E veniamo alla maturità, da sempre oggetto di infinite discussioni, che rimarrebbe invariata. Così com’è, l’esame non ha più senso. Intendiamoci: in qualunque sistema scolastico esiste un momento in cui gli studenti devono essere selezionati sulla base delle loro competenze e motivazioni, per meglio orientarsi alle scelte di studio e professionale successive. Il problema è che il nostro esame di Stato non soddisfa questi requisiti: non è selettivo (lo supera il 99% dei candidati); dà esiti diversi a seconda della discrezionalità di ciascuna commissione e delle diverse aree del Paese (l’anno scorso il numero di 100 e 100 e lode in Calabria è stato il triplo della Lombardia); non fornisce un vero quadro delle competenze acquisite; non orienta né per l’università né per il lavoro. Una soluzione sarebbe abolirla tout court, lasciando che siano le università a selezionare gli studenti in ingresso, come avviene sempre più spesso, proprio perché del giudizio di maturità non si fidano. In questo modo, però, i diplomati (poco meno della metà) che non proseguono gli studi non riceverebbero un’effettiva certificazione. L’unica strada per salvare la maturità è allora trasformarla in un esame simile a quello di molti Paesi del Nord Europa, ad esempio, l’Olanda: prove comuni a tutti e una correzione unificata a livello centrale (in era digitale non è così complicato e costoso) che permetta di valutare in modo omogeneo i risultati a livello nazionale, rendendoli confrontabili, ciò che oggi non sono. Solo così atenei e datori di lavoro avranno gli elementi per capire le reali competenze e potenzialità dei candidati, indipendentemente dalla commissione e dal luogo dove sono stati esaminati.