A poche settimane dalla fine dell’anno solare, per centinaia di migliaia di docenti e Ata interessati le nuove regole sui pensionamenti si trasformano in un vero enigma: il Miur si è infatti limitato pubblicare il decreto con le istruzioni operative per l’accesso al regime pensionistico con dei requisiti addirittura peggiori dell’anno passato, con scadenza per la presentazione delle domande di dimissioni volontarie dal servizio fissata al prossimo 12 dicembre.
Per via dell’innalzamento dell’aspettativa di vita, come aveva da tempo detto La Tecnica della Scuola, i nuovi requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia per uomini e donne, con almeno 20 anni di contributi, passa da 66 anni e 7 mesi a 67 anni tondi. La pensione anticipata, invece, richiederà un’anzianità contributiva non più di di 41 anni e 10 mesi per le donne e di 42 anni e 10 mesi per gli uomini, ma di 42 anni e 3 mesi di anzianità contributiva per le prime e di ben 43 anni e 3 mesi per il sesso maschile.
L’unica buona notizia è che per il raggiungimento dei requisiti richiesti, si continuerà a mantenere il vantaggio di andare in pensione il primo giorno di settembre, facendo però valere anche i quattro mesi successivi – fino il 31 dicembre – pur non avendoli assolti.
Il decreto, inoltre, prevede la conferma dell’Opzione donna (art. 1 comma 9 della legge 23 agosto 2004, n. 243), introdotta dall’art. 1 comma 9 della Legge 243/2004, che consente l’accesso alla pensione con 57 anni e 7 mesi di età anagrafica e 35 anni di anzianità contributiva. Il pensionamento è consentito dal 1° settembre 2019 a condizione che il requisito di contribuzione sia stato maturato entro il 31 dicembre 2015 e quello anagrafico entro il 31 luglio 2016. L’assegno pensionistico verrà conteggiato per intero col sistema contributivo e questo comporta il taglio di circa il 30% dell’importo assegnato.
Conferme, anche se ancora non formali, sono giunte anche per l’adozione dell’Ape Social, la misura del precedente Governo per un reddito ponte per gli over 63 in condizione di bisogno (disoccupati con almeno 30 anni di contributi, lavoratori con lavori gravosi, tra i quali figurano anche le operatrici dei nidi e le maestre della scuola d’infanzia, però con almeno 36 anni di contributi) che sarebbe scaduta a fine anno: sarà prorogata fino alla fine del 2021. Per ora, al Miur hanno solo fatto sapere che “per le dimissioni relative alla fruizione dell’istituto dell’Ape sociale è prevista una specifica circolare”.
Su Opzione donna, tuttavia, sembra subentrare qualche dubbio. “Reddito di cittadinanza e quota 100 per le pensioni, cardini della politica economica del governo gialloverde – scrive l’Ansa il 18 novembre – sono finanziati in due fondi distinti, ma la messa a punto delle norme è rimandata a provvedimenti ad hoc, ddl o decreti da presentare nelle intenzioni prima di Natale. Dall’articolato, così come dagli emendamenti, mancano però le promesse proroghe di Ape social e opzione donna, che sembravano essere già dati per assodati”.
“Probabilmente – continua l’agenzia – arriveranno come emendamenti del governo, così come il taglio delle pensioni d’oro su cui non sembra ancora essere stato trovato il compromesso politico tra i due azionisti di maggioranza. L’obiettivo propagandato dal governo è di ottenere 1 miliardo in tre anni”.
Come se non bastasse, anche su quota 100 ci sono poche certezze: mentre al Governo si continuano a ridurre le “finestre” di accesso, probabilmente una ogni nove mesi (anche se per la scuola non cambia nulla), ed il numero uno dell’Inps, Tito Boeri, continua parlare di mancate coperture sull’anticipo pensionistico e della possibilità che alla fine si traduca in una manovra una tantum, sul modello 38 + 62 pesano come macigni le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio di qualche giorno fa.
In particolare, gli economisti di Stato hanno previsto un taglio dell’assegno di quiescenza, rispetto all’uscita con l’età di vecchiaia, tra il 5% e il 30% dell’importo lordo.
La riduzione maggiore, come ha da tempo scritto La Tecnica della Scuola, scatterà per chi rientra per poco nei parametri 38 anni di contributi e 62 di età, quindi soprattutto per chi potrà vantare meno di 40 anni di contributi: tanto per capirci, questo significa che i più penalizzati andranno in pensione con 1.000 euro netti anziché 1.500. Insomma, si rischia concretamente di incorrere in taglio tutt’altro che indolore.
Secondo i rappresentanti dei lavoratori si tratta di un’ipotesi impresentabile: “sull’uscita anticipata anche a 62 anni, servono precise garanzie sul mantenimento dell’assegno completo. E non solo”, scrive l’Anief, che ha predisposto una serie di emendamenti alla legge di bilancio, per prevedere “l’insegnamento tra le professioni caratterizzate dal particolare gravoso, che oggi danno diritto all’Ape cosiddetta Social” e l’attivazione di “un’apposita finestra che permette l’accesso e la decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità secondo le regole previgenti la riforma cosiddetta “Fornero””.
Su quota 100 “rischiano di non essere interessati i lavoratori del Mezzogiorno, le donne, i precari e i giovani”, ha invece sottolineato il segretario nazionale Uil Carmelo Barbagallo.
“Potrebbe essere una base di partenza ma bisogna continuare con i lavori della commissione tecnico-scientifica per individuare quali settori e quali lavoratori non permettono di arrivare all’età pensionabile. Occorre intervenire con la flessibilità in uscita per questi lavoratori”, ha concluso il sindacalista confederale.
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