Cara Tecnica della scuola
sono spinto a scrivere queste righe perché sono stanco di leggere, su molti siti sulla scuola e talvolta anche su quello della Tecnica, appelli accorati contro la legge sulla Buona scuola, per lo più fondati su motivazioni parziali e talvolta infondate. Dico subito che sulla Buona scuola e annessa legge vedo prevalere gli aspetti positivi, alcuni dei quali trovano un riscontro in battaglie condotte negli ultimi decenni da parte delle persone attive che hanno operato per una scuola quanto più adeguata ai bisogni della società.
Sono un vecchio preside in pensione e ho vissuto nella scuola la stagione segnata dall’attuazione dei decreti delegati. Una delle cose di cui ho più sofferto, da insegnante e da preside, è la difficoltà e spesso l’impossibilità di veder valorizzato l’impegno, la serietà, la volontà di continuare ad imparare di alcuni colleghi. Ricordo i mancati riconoscimenti verso gli insegnanti disposti a spendersi – e a spendere parte del loro tempo – per i loro allievi e in generale per la scuola (non solo per il proprio istituto, ma per la Scuola). Ho incontrato insegnanti portatori di esperienze di valore, per lo più minoranze e quasi sempre minoranze non valorizzate e talvolta frustrate: in primo luogo dai capi d’istituto ma spesso anche dai colleghi, preoccupati che il loro esempio potesse nuocere loro alzando il livello richiesto delle prestazioni.
Ancora più pesante dell’impossibilità di valorizzare impegno, serietà, cultura dei docenti è la altrettanta impossibilità di intervenire nelle situazioni problematiche e persino in quelle patologiche. Se un genitore va a parlare con capo d’istituto lamentando – legittimamente o no – una disfunzione della scuola, una inadeguatezza, un comportamento scorretto da parte di un insegnante, il dirigente scolastico ha sì il potere di fare delle verifiche ma non gli è possibile andare al di là di esse, perché non è stato adottato alcun metro di valutazione delle prestazioni del personale, a partire da chi dirige. I concorsi per l’accesso alla dirigenza di questi anni hanno dato per lo più esiti modesti: tre procedure di valutazione dei presidi si sono succedute, e tutte e tre sono andate a vuoto per la resistenza dei diretti interessati e delle loro organizzazioni. Certo, non erano dispositivi perfetti, ma è facile trovare punti deboli in qualsiasi sistema di valutazione. Le obiezioni sono della stessa natura di quelle rivolte in particolare da alcune organizzazioni degli insegnanti al sistema nazionale di valutazione messo in atto dall’a.s. 2014/15 al 2016/17 o alle prove INVALSI.
Per quello che ho sperimentato, c’è un numero consistente di insegnanti non consapevole che il nostro mestiere richiede, per essere efficace ad allievi che apprendano, formatori in costante apprendimento. Si tratta oggi come ieri anche di riprendere / continuare a studiare, a leggere, ma purtroppo molti hanno cessato di farlo al momento dell’assunzione e guardano ai cambiamenti con preoccupazione. Oggi un insegnante impreparato ha spesso paura di entrare in classe, ha difficoltà crescenti con allievi che non capisce (e che non lo capiscono) e teme adesso anche un attacco dal “centro” del sistema formativo. Ciò non toglie che ci siano non poche esperienza in cui i ragazzi incontrano un educatore disposto a mettersi in gioco con loro, in uno degli infiniti modi possibili. Si tratta di una minoranza, ma andrebbero spinti a farlo anche le maggioranze che mal sopportano le iniziative di formazione (a partire da quelle di auto-formazione). Dovrebbero sentirsi in colpa se nell’ultimo anno non hanno letto un libro o non hanno partecipato ad una riunione con i colleghi in cui discutere di ragazzi, di didattica, insomma della propria professione, la quale è troppo importante per limitarla ad una rivendicazione di diritti.
Romei quando ha introdotto in Italia il tema della scuola come organizzazione ha utilizzato il concetto di organizzazione a legami deboli, considerandolo non solo un limite o un problema, ma anche una caratteristica positiva della professione del formatore. Osservava però che la debolezza del legame ha raggiunto un grado ormai insostenibile ed ha usato una metafora tratta dal gioco del calcio. È difficile, diceva, indirizzare la palla verso la porta se il pallone è sgonfio: fuor di metafora, se non esiste un minimo di controllo, di valutazione / autovalutazione dei comportamenti collettivi nella scuola. Gonfiare un po’ il pallone significa avere chiarezza sui risultati da raggiungere, assegnare a qualcuno la responsabilità sui risultati, a partire dai propri, sapendo che risultati di qualità dipendono da processi di qualità. Processi formativi ed anche processi organizzativi, per il ruolo che le dinamiche sociali e relazionali hanno sulla formazione.
C’è un principio che attraversa tutta la produzione normativa sulla scuola e in generale sulla pubblica amministrazione: il potere di indirizzo è degli organi eletti democraticamente, quella di gestione è degli operatori, ai diversi livelli. La “Buona scuola” ribadisce il ruolo del potere centrale nello stabilire le finalità (Profili educativi culturali e professionali che gli allievi devono conseguire, norme generali sull’istruzione, ecc.) e, per il singolo istituto autonomo, del Consiglio d’Istituto nel fissare gli indirizzi, gli orientamenti generali in relazione al contesto; del Collegio dei docenti per gli indirizzi formativi e per le scelte didattiche.
Il compito della gestione è organizzato gerarchicamente e dentro la singola scuola è del preside. La gestione può, deve essere partecipata, quando non lo è o non lo è stata accade per lo più che la scuola non funzioni. Una organizzazione non può però fare a meno di qualcuno che alla fine assuma il compito e la responsabilità della decisione, compreso quello del controllo. Naturalmente la valutazione dei processi e dei risultati è opportuno che sia fatta con la partecipazione di tutti coloro che sono interessati, compresi genitori e, nel 2^ ciclo, allievi. Valutazione che prenda le mosse da una auto-analisi del sistema scolastico con l’onere della documentazione dei criteri e delle procedure e di una rendicontazione pubblica.
Il sistema attuale, fortemente ingessato, presenta pochissimi veri controlli. Certo, il nodo è la formazione dei dirigenti, come per un verso più generale, la formazione dei formatori, dei docenti. Solo con le riforme degli ultimi anni questo compito è stato assolto in modo solo parziale dall’università. I buoni insegnanti e i buoni presidi che conosco si sono formati sul campo, e solo quando hanno accettato rischi e responsabilità, uscendo fuori dal recinto delle sicurezze burocratiche.
Io credo che la legge sulla Buona scuola rappresenti un vero cambiamento, confrontabile solo con i decreti delegati del 1974. In realtà il cambiamento reale è già avvenuto. Avrebbe dovuto essere quello dell’autonomia scolastica, ma si tratta di un cambiamento che per la maggior parte delle scuole semplicemente non è avvenuto, non c’è. In particolare in aree geografiche e culturali in cui prevale una visione verticale e quantitativa del potere.
Per quanto riguarda la critica alla norma che introduce il cosiddetto principio di un ‘uomo solo al comando’, ritengo semplicemente che ogni organizzazione strutturata abbia bisogno di qualcuno che in ultima istanza possa decidere assumendosi le responsabilità della decisione. Così come accade per le decisioni sul piano formativo, sul quale l’insegnante si muove sulla base di obiettivi fissati dal centro (dal Ministero, dal Parlamento), occorre che ciascun operatore sia valutato in modo trasparente sulla base del raggiungimento degli obiettivi. Più autonomia e quindi di fatto più poteri alle scuole e ai loro organismi collegiali, ed opportunamente forme di rendicontazione pubblica.
Con un piano triennale dell’offerta formativa (che non sostituisce il POF, purché questo non venga considerato come una collazione di progettini) la definizione dei fabbisogni parte dal basso. La singola scuola interviene anche se in misura parziale e dentro il quadro complessivo del curricolo, nelle scelte decisive di ogni azione progettuale: allocazione delle risorse e quindi sugli organici attraverso l’organico funzionale. Chi ha vissuto la stagione delle sperimentazioni previste dal DPR 419/74, ricorda come le più ambiziose, quelle di ordinamento e struttura, prevedevano già una diversa normativa per l’assegnazione dei docenti alle classi sperimentali. Operazione che allora – in assenza di autonomia di ricerca e sviluppo – era coordinata dal centro, ma vigeva lo stesso principio che lega in un progetto risultati attesi e risorse.
Penso che in fondo ci sia un fatto: ci sono insegnanti e presidi che non hanno mai digerito l’autonomia scolastica e vedono male una scuola che colloqui realmente con il territorio (capitolo dentro cui vanno iscritti i percorsi scuola-lavoro o comunque di cultura del lavoro). Penso inoltrte che vada diffondendosi tra i protestatari, sotto una veste vittimistica e appassionata, una visione prescrittiva, quasi burocratica della scuola, che tra l’altro comporta poi la conseguenza di privare – come avviene sostanzialmente oggi – i dirigenti di strumenti effettivi per gestire le scuole rispondendo dei risultati.
L’alternativa non può che consistere nel definire un sistema di contrappesi che coniughi l’efficienza gestionale con principi di garanzia e di trasparenza, verso l’esterno ed anche verso l’interno della scuola, per una condivisione delle scelte di carattere strategico che competono alla scuola autonoma.
Che tutto questo parlare del preside-capo riveli in fondo oggi un riemergere del ruolo e della figura del padre di cui tanto si parla nella saggistica ma anche nella letteratura?
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