In Italia un minorenne violento, pieno di rabbia e rancore, che abbia commesso piccoli reati o sia rimasto impigliato nella rete delle droghe leggere e accusato di spaccio, facilmente finisce in un carcere minorile. È giusto trattarlo da belva feroce? È questo il modo corretto per “curare” la sua tendenza delinquere? No di certo: nella maggioranza dei casi — anche grazie alle mafie, “agenzie educative” saldamente radicate nel nostro Paese — il carcere minorile è solo il primo gradino di una truculenta carriera sulla via del crimine, spesso destinata a terminare col carcere a vita o con la morte violenta. La media nazionale di recidiva nel commettere nuovi reati dopo il carcere minorile è poco al di sotto del 70%. E i minori detenuti aumentano ogni anno di più.
Non mancano casi virtuosi, come quello di Bollate, dove il tasso di recidiva è al 17%. Ciò accade ove si rispettino le leggi italiane sugli Istituti Penali per i Minorenni (IPM): leggi — almeno sulla carta — tra le migliori del mondo.
Malgrado ciò, persino l’IPM “modello” di Bollate — dove i detenuti possono lavorare e studiare, uscendo di cella — la situazione è difficilissima: suicidi, sovraffollamento, aggressioni, atti di autolesionismo. Non mancano neanche lì i problemi strutturali, né il sovraffollamento, che contribuiscono entrambi al malessere dei giovanissimi carcerati.
Sul sito web del Ministero della Giustizia si legge: «Negli IPM vengono garantiti i diritti soggettivi a un’armonica crescita psico-fisica, allo studio, alla salute, con particolare riguardo alla non interruzione dei processi educativi in atto e al mantenimento dei legami con le figure significative. In accordo con la normativa vigente e al fine di attivare processi di responsabilizzazione e maturazione dei minorenni, vengono organizzate attività scolastiche, di formazione professionale, di animazione culturale, sportiva, ricreativa e teatrale. Le attività trattamentali sono organizzate in sinergia con la scuola, la formazione professionale e il mondo del lavoro, per massimizzare l’offerta di percorsi educativi».
Non si comprende, allora, come siano possibili i tanti abusi e violenze (e rivolte) che la cronaca registra all’interno degli IPM qua e là per l’Italia: come al “Beccaria” di Milano, considerato istituto modello prima dei ripetuti episodi recenti di evasione e di ribellione violenta dei giovani detenuti (l’ultima poco più di un mese fa), ove sono state raccolte le prove di pestaggi e violenze d’ogni tipo perpetrate nei confronti persino di detenuti quindicenni. «Tutto il sistema delle carceri minorili si basa sulla violenza», titola l’Espresso il 15 maggio 2024. Una realtà tale da convincere i minori detenuti che la sofferenza faccia parte della pena.
Cesare Beccaria, cui per ironia della sorte l’IPM di Milano è intitolato, fu tra i primi (nel 1764) a negare che lo Stato abbia il diritto di commettere delitti per punire chi si macchi di delitti. Infatti, 184 anni dopo, l’art. 27 comma 3 della Costituzione prescrive: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
La risposta a chi delinque deve essere educativa. Anche perché ai minori che delinquono sono spesso mancati esempi positivi in famiglia, ed è lo Stato a dover proporre quei modelli positivi, che solo la democrazia — se è veramente tale — può fornire. Questo è il significato del compito assegnato alla Repubblica dalla Costituzione (art. 3): «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il “pieno sviluppo della persona umana” si raggiunge educandola, ossia aiutandola a far scaturire il meglio di sé, del proprio intelletto, dei propri talenti.
Eppure la risposta del Governo allo stupro di gruppo nei confronti di due bambine (verificatosi per mesi a Caivano ad opera di 15 adolescenti e scoperto nell’agosto 2023) è stato il “decreto Caivano”: ossia quel D.L. 123/2023 che inasprisce tutte le pene per i reati dei minori, nella ostinata illusione di limitare i reati con la deterrenza della pena; mentre invece tutti i dati dimostrano che i delitti sono più frequenti proprio laddove le leggi sono più dure. In dieci nazioni su undici che hanno abrogato la pena capitale, invece, gli omicidi sono diminuiti: Serbia, Albania, Polonia, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Ucraina, Azerbaijan, Kirghizistan e Sudafrica.
Sangue chiama sangue, violenza genera violenza. Ma soprattutto, uno Stato che si autodefinisca democratico non può ergersi a giudice, se è esso stesso maestro e gestore dell’ingiustizia. Solo l’esempio cambia le persone. Un esempio che, se manca il modello familiare, può esser fornito dalla Scuola: purché Scuola democratica, ove i valori costituzionali siano vissuti, respirati e messi in pratica; cominciare dalla libertà dei docenti nel decidere autonomamente i percorsi didattici, senza pedagogie di Stato ispirate a modelli aziendalistici o ad altre ideologie o religioni.
Solo l’esempio di una comunità educante, basata sul rispetto reciproco e sul pluralismo delle idee e delle prassi, può rieducare chi ha respirato fin da piccolo tossici disvalori fondati su violenza, sopraffazione, angoscia, paura, rabbia, consumismo, disprezzo per il debole. Istruzione e cultura — come già Beccaria scriveva 260 anni or sono — possono far rinascere il rispetto per la libertà altrui e per la propria (e altrui) umana dignità.
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