Caro presidente Mattarella, ecco la mia storia di insegnante nel carcere

Spettabile Presidente della Repubblica Mattarella la buona scuola ha lasciato a casa migliaia di docenti abilitati che pur avendo alle spalle decine di anni di esperienza si è voluti deliberatamente ignorare, considerando l’esperienza stessa non un requisito importante favorendo così, solo il requisito del merito. Come se il merito poi, questi docenti non l’abbiano mai avuto, come se l’esperienza acquisita sul campo e il successivo corso di abilitazione frequentato con sacrifici e abnegazione al senso del dovere (in quanto molti docenti l’hanno frequentato contemporaneamente al percorso lavorativo garantendo e non penalizzando l’attività didattica nelle scuole in cui lavoravano) fosse cosa da poco conto. Io docente con servizio e abilitata pas non mi sento una docente di serie B e non lascerò che questa legge faccia di me una docente da rottamare.
La invito a leggere la mia storia e invito tutti i miei colleghi a scriverle la loro in modo da farle capire quanta professionalità avete lasciato a casa.
La mia esperienza nella scuola è iniziata per caso, ho iniziato a lavorare nel 2005.
La scuola è stata la mia palestra di vita, ho imparato sul campo e grazie ai miei alunni, ho imparato ad insegnare e a trasmettere loro le cose di cui avevano bisogno.
Per diventare quel che sono oggi devo ringraziare la mia esperienza fatta a contatto con le classi “difficili”, quelle che nessuno voleva, le classi pollaio (dove riuscire a ottenere il minimo è già una vittoria), i centri EDA e gli istituti penitenziari. Ogni volta un’esperienza nuova, ogni volta una ricchezza in più. Il carcere è stato il mio percorso più bello.
Le difficoltà incontrate nell’ambiente carcerario sono state tante, sono molti gli aspetti socio – affettivi e socioculturali di cui tener conto in un ambiente come quello carcerario, dove l’insegnamento è una scelta e non viene imposto. Innanzitutto, all’inizio della relazione educativa l’insegnante deve considerare sia le difficoltà del contesto (che ha una notevole influenza sull’apprendimento), sia le motivazioni degli alunni, che spesso generano atteggiamenti di disinteresse se non di ostilità.
Per un insegnante interagire con un detenuto diventa una sorta di sfida e, per produrre un buon lavoro, l’insegnante deve entrare in comunicazione con l’altro. L’insegnante in carcere (ma mi rendo conto ormai che questo discorso è valido anche nelle classi cosiddette “normali”) deve svestirsi completamente di qualunque ruolo e cercare di innescare un processo di empatia. Ogni individuo ha una storia da raccontare, una sua dignità e, su queste basi la lezione si costruisce in itinere.
Bisogna innanzitutto capire quali sono le strategie adeguate per arrivare agli studenti, magari ricominciando anche dall’ABC.
Si tratta di esperienze uniche, indimenticabili, ragazzi difficili che all’inizio rifiutano di imparare , ma che, una volta conquistata la loro fiducia, si interessano alle lezioni e ne diventano i protagonisti.
La didattica è molto lontana dai modelli che vengono proposti nei corsi universitari. Essa si plasma continuamente sul singolo individuo: c’è “l’ultimo” quello da cui non ci si aspetta niente, c’è il timido, l’insicuro, lo sfiduciato, l’annoiato ecc.; ognuno di loro ha bisogno di essere ascoltato, di essere seguito in un modo diverso dall’altro, ad ognuno di loro si deve insegnare ad amare quello che fanno, quello che stanno studiando.
Una mia collega mi ha insegnato a cercare e a guardare i ragazzi in prospettiva, la chiamano profezia educativa, significa provare ad immaginare un futuro diverso non scontato. La vera scommessa è l’empatia. Per insegnare bisogna appassionare, per insegnare bisogna emozionare
.
Gli insegnanti devono riuscire a creare un rapporto di fiducia con gli studenti, a superare le diffidenze, devono riuscire ad accompagnare lo studente nell’apprendimento, un lavoro per nulla semplice.
Don Lorenzo Milani scriveva “si definisce maestro chi non ha alcun interesse culturale quando è solo”, allora il docente dovrà necessariamente uscire dalla “solitudine” della lezione excathedra, abbandonare la lezione statica, avere il coraggio di percorrere strade incerte, ma sicuramente più affascinanti: le strade della condivisione e del dialogo, le strade che prediligono la comunicazione al monologo.
L’insegnante deve prendersi cura dei suoi ragazzi e io ho fatto mio il motto di Don Milani: “I Care”.
Caro Presidente sa che le dico che io il mio “merito” già ce l’ho.
lo vinco il mio concorso ogni giorno guardando negli occhi i miei ragazzi, lo vinco ogni giorno quando riesco a salvarne almeno “uno”, Io vinco ogni giorno quando nelle scuole “normali” applicando la mia esperienza sul campo, riesco a favorire l’apprendimento in quegli alunni restii all’apprendimento stesso, scostanti e diffidenti.
Perché la bravura di un insegnante non si misura sui ragazzi che sono già bravi in partenza, ma sulla capacità di aiutare chi è in difficoltà e di risollevarlo da un destino che oramai tutti credono già segnato. “
Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita“. 

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