Caro preside Zen,
le repliche giornalistiche sono come quelle dei terremoti: cambiano di intensità ma il fenomeno continua ad essere lo stesso.
Così è avvenuto con la sua di replica.
Che si caratterizza per una prosa accortamente meno irruenta, apparentemente più pacata ma, sostanzialmente, basata su un assunto che continua ad essere non condivisibile.
Eviterei il ricorso ai massimi principi filosofici, al tono aulico di chi per spiegare l’inspiegabile (l’assenza della norma si chiama anomia che è la versione de’ noantri dell’autonomia scolastica in genere praticata nelle scuole dai presidi dalla scarsa cultura giuridica) non esita, però, a dare sostanzialmente del “cretino” all’interlocutore.
Ora, può pure essere che io e qualche diecina di replicanti non si sia capita una ceppa del suo ragionamento.
Ma per ricondurci alla ragione non si può girare la frittata, bisogna che si replichi nel merito.
Perché la Costituzione, che continuo ad insegnare ai miei studenti nonostante certe scelte assurde della politica scolastica del passato (e lei c’era, ahimè anche allora a sostenerle perché, anche se a distanza, siamo, io e lei, due vecchi “amici”, come un vecchio “amico” mio e del Diritto è pure il dott. Bruschi – ex Max ora Marco – Capo dipartimento del MI che ora scrive le Note ministeriali sulla DAD e scrive di “tradizione” nella valutazione regolamentata dai Regi decreti), la Costituzione, dicevo, con gli articoli 33 e 34 indica la strada maestra per qualsiasi docente.
O, caro preside, nella sua lunga carriera ha conosciuto docenti tanto infingardi quanto autolesionisti da negare il diritto allo studio e quindi se stessi e la funzione svolta?
E’, evidentemente, una domanda retorica la mia.
Ma la risposta a questa domanda retorica non la fornisco io: la forniscono i docenti di ogni scuola d’Italia ai tempi del coronavirus.
Tutti, senza eccezione alcuna e senza retorica e quindi toglierei, caro preside il suo “quasi” usato nella replica.
Perché il mio “tutti” comprende pure i “cretini” (ieri sera ho finito alle 23 di correggere ed inviare mail e pensi un po’ non chiederò lo straordinario notturno) e quelli che le ricordano il CCNL e l’evidenza del Re nudo.
Cosa significa riferirsi al diritto allo studio sancito dall’art. 34?
Significa che, a meno di non voler negare se stessi, ogni docente sa quello che deve fare in questo frangente.
E lo fa e lo farà come deciderà, come può e come sa.
L’ordine dei verbi non è casuale.
Senza bisogno di ukase (non mi faccia fare il florilegio delle circolari chè Internet, ahimè, è pure oggi impietosa), senza bisogno di offese (Vergognatevi e tacete), senza bisogno di subire la disintermediazione sociale (lo so, è una parolaccia e la spieghiamo semplicemente con “sti sindacati c’avevano rotto prima e continuano a romperci pure ai tempi del coronavirus”).
Ed allora cosa c’è di non condivisibile della sua replica?
Il concetto fintoliberale del “Quel che non è vietato è permesso”, una sorta di Comma 22 che lei e i 10 presidi volete, però, interpretare a senso unico e senza il necessario reverse point of view (la dico in inglese che fa più fico e sembro smart).
Perché “tutto quello che non è vietato è permesso “ non può, con un salto logico irreversibile, diventare “e dunque diventa obbligatorio”.
E’ lo stesso errore della Nota ministeriale (quando si dice le affinità culturali) che evoca la obbligatorietà formale della valutazione al tempo del coronavirus in regime di sospensione delle attività didattiche.
O del Ministro che si affanna a ripetere il rifiuto del 6 politico dimenticando pure, ahimè, l’autonomia (concetto caro a Zen) di giudizio del docente e l’art. 33 della Costituzione.
Perché oltre al diritto allo studio, caro Zen, c’è anche la libertà di insegnamento e la sua responsabilità.
Che non è, certamente, il fondamento del solipsismo del docente ma è, comunque, uno scudo da opporre ai contemporanei Minculpop de’ noantri che la collega Dell’Aria (caro Zen se la ricorda?) è stata costretta in tempi recentissimi ad invocare, credo, davanti al necessario giudice del lavoro.
Perché, se tutto quello che non è vietato è permesso, dobbiamo metterci settimane per usare Skype o aspettare il Garante della Privacy quando l’autorizzazione al trattamento dati è già nei moduli di iscrizione?
Perché, evidentemente, allo Stato di diritto si sostituisce l”Etat c’est moi”.
Accettare il principio di Zen e cioè che in assenza di norme il decisore scolastico diventi la fonte delle regole applicando un errato concetto di autonomia (che non può equivalere all’anomia, lo ripeto) significa ignorare l’essenza dello Stato di diritto.
Senza se e senza ma.
Intendiamoci: citare il “6 politico” o rivendicare, come fa Zen , la autonomia delle istituzioni scolastiche sono espedienti ideologici che, in questa fase, non fanno presa ma servono unicamente per alimentare il “dalli al sindacato” o il “dalli al fannullone” (di brunettiana memoria, quando si dice i corsi e ricorsi storici) che vuole pure promuovere tutti e rifiuta la DAD.
Perché scaricare sui docenti indecisioni, errori di valutazione, sinergie folli da catene di S.Antonio di circolari mandate in giro fra i colleghi come modelli, che anche stavolta si registrano fra tanti presidi è la cosa più semplice.
Ma non tutti i presidi sono uguali.
Per convincersene basta leggere, ad esempio, una recente intervista della dirigente scolastica palermitana Giovanna Genco, già docente di Diritto, su Repubblica, a proposito del monitoraggio relativo alla forzata “disconnessione” degli studenti deboli.
Gli espedienti ideologici, comunque, non fanno presa per la banale ragione che se la scuola regge e reggerà alla tempesta del coronavirus, dipende puramente ed esclusivamente dai docenti.
E’ una verità, caro preside Zen, che dovrebbe, se la sua intentio è autentica, accettare anche lei senza il suo personale Comma 22.
Franco Labella
docente e RSU FLC-CGIL
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