Qualche mese fa, in una discussione su tutt’altri temi cui ero presente, una docente di scuola superiore affermava che i suoi studenti erano molto toccati da tutto ciò che riguardava il genere. Aggiungeva, inoltre, che la maggior parte dei ragazzi era solita farsi chiamare con nomi maschili (se femmine) o femminili (se maschi). Stupore (mio), gran cenni di assenso con il capo da parte degli insegnanti lì presenti. Così, ho cercato di raccogliere informazioni e notizie che mi hanno dimostrato quanto profonda fosse la mia ignoranza sulla questione del “genere” nelle nostre scuole.
Non che pensassi che ai bambini si raccontassero rassicuranti storielle su semini, farfalline e cavoli per instradarli verso l’educazione sessuale. La verità è che sono sempre stata infastidita dalla querelle sul “genere” a scuola. Mi pareva chiaro che piuttosto che occuparsi del “genere” ci si dovesse semmai preoccupare, da parte degli adulti, della gran quantità di materiale visivo pornografico, nella versione hard o soft, cui qualsiasi bambino o adolescente può aver accesso se possiede un computer o uno smartphone.
L’effetto, sui giovanissimi di oggi, non credo sia lo stesso rispetto a quello che era il cercare, ieri, immagini pruriginose in un vecchio libro posto in uno scaffale proibito ai piccoli di casa. I dati sono noti. Un intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali, dell’ottobre 2022 ricorda che cinquecento milioni di bambini online fingono di essere adulti: “Un terzo dei bambini tra gli otto e i diciassette anni online fingono di essere più grandi per usare social media, app di gaming e siti di condivisione di contenuti anche pornografici e due terzi di loro sono aiutati a mentire dai loro genitori”.
Questo problema mi pareva non sufficientemente affrontato, ma forse avrei comunque fatto bene ad approfondire ciò che si muoveva attorno al “genere”. Cosa che sto facendo, ora, con gli occhi incerti tra lo sconforto e il pianto – per parafrasare il poeta. Partiamo dalla “carriera alias”, attorno alla quale ci sono polemiche quotidiane nel mondo della scuola. Cosa sia la “carriera alias” lo ha spiegato bene un recente articolo de Il Manifesto: “La carriera alias è un protocollo che offre la possibilità di comparire nella burocrazia interna di un ente o di un’azienda con il nome che corrisponde alla propria identità di genere anche se diversa da quello anagrafico, senza che questo incida sui riferimenti legali.” L’articolo aggiunge che, a tutt’oggi, sono 200 le scuole italiane che la prevedono nel loro Regolamento. Essa è finalizzata ad “evitare alle persone che sono in un percorso di transizione il disagio di venire quotidianamente menzionate con il loro deadname (anglicismo che indica il nome nel quale una persona trans o non binaria non si riconosce più)”.
La “carriera alias” non piace a tutti: due recenti casi di cronaca l’hanno dimostrato. Il primo riguarda il liceo artistico “Marco Polo” di Venezia la cui preside ha ricevuto una sorta di sollecito ad interrompere il progetto “carriera alias” da parte di due delegati di Fratelli d’Italia al comune di Venezia, l’uno del Dipartimento “Pari opportunità, famiglia e valori non negoziabili” (sic!) l’altro del più banale Dipartimento Istruzione. La preside ha risposto che la politica non deve aver ingerenze nell’autonomia scolastica. Il secondo caso è avvenuto a La Spezia: il consiglio comunale ha approvato una mozione contro la ‘carriera alias’ per gli studenti della scuola “Capellini-Sauro”. Anche qui il preside, che ha ricevuto la solidarietà della Flc-Cgil, rimanda al mittente l’invito, invocando l’autonomia scolastica.
Teniamo conto che i bambini con disforia di genere in Italia (la definizione che si usa per indicare chi non si riconosce nel sesso che ha alla nascita) possono essere trattati con farmaci che ritardano la pubertà. Dal luglio 2022 la triptorelina, il farmaco che ‘sospende’ la pubertà, è stata inserita anche fra i medicinali erogabili a carico del Servizio sanitario nazionale. Legittimo chiedersi quanti siano i casi di autentica disforia di genere: a quanto pare negli ultimi anni sono aumentati di molto. Ad esempio, tra il 2018 e il 2022, gli adolescenti che si sono rivolti al Servizio per l’adeguamento tra identità fisica e identità psichica (Saifip), dell’ospedale San Camillo-Forlanini di Roma, sono aumentati del 470%, passando da 20 114. Numeri in netta salita; giustificano quindi l’introduzione di una “carriera alias”? O si dovrebbe affrontare il problema nelle scuole con ben altra serietà e competenza?
Sinora mi sembra che la “carriera alias” sia servita ad individuare due “campi”, l’uno dei quali si crede progressista e l’altro fortemente conservatore o, se più piace, reazionario. Ritengo che si tratti della contrapposizione di due opposti conformismi, che si muovono entrambi alla superficie di un problema serio, che appunto è quello della disforia di genere. E, ancora una volta, l’errore gravissimo che viene compiuto è quello di intervenire precocemente e a piè pari in un ambito – la costruzione dell’identità sessuale – quanto mai intricato e complesso. Mi chiedo se nessuno dei coinvolti nel dibattito abbia mai letto i Tre saggi sulla teoria sessuale di Freud. Il bambino, sotto l’influsso della seduzione, può “diventare un perverso polimorfo e può essere avviato a tutte le possibili prevaricazioni. Ciò dimostra che egli è costituzionalmente a ciò qualificato; la realizzazione incontra poi scarse resistenze perché gli argini psichici verso le stravaganze sessuali – pudore, disgusto, morale – sono, secondo l’età del bambino, o ancora sconosciuti o appena in formazione”; come a dire che il bambino è terreno fertile per le influenze e che la scelta dell’oggetto sessuale è determinata anche da condizioni esterne. Suggerisce Freud, nel lontano 1905: con i bambini procediamo cauti e attenti e non pensiamo mai di aver capito tutto. Altro che la sicumera degli odierni educatori!
Ora, tornando all’iniziazione sessuale precocissima dei nostri bambini attraverso video ed immagini che possono trovare in Internet con grande facilità (ma questo è soltanto un esempio – viviamo immersi in una dimensione pervasa da rimandi sessuali) c’è da stupirsi se i più piccoli si fissino su qualcosa che più di altre li ha impressionati? E cosa fanno gli adulti? Invece di parlare con i più piccoli, li scrutano e li consolidano nelle loro fissazioni (uso il termine in senso tecnico). Invece di aiutarli, qualora incontrino difficoltà nella costruzione dell’identità sessuale (cosa non così rara) li spingono a definirla e mettono a punto PROTOCOLLI per incasellare un fenomeno che andrebbe invece accolto con rispetto ma con l’autorità di chi sa, per averlo studiato e per averlo vissuto, che la costruzione dell’identità sessuale, come la costruzione del sé, non è mai data una volta per tutte e che non può prescindere dall’età del soggetto. Stupisce che gli educatori non tengano nella giusta considerazione questo aspetto; stupisce che, di fronte ad un tema così delicato, la soluzione sia trovare la via burocratica giusta per un cambio di nome. Insospettisce – e non poco – l’aver messo tra parentesi la crescita esponenziale della disforia di genere negli ultimi anni; dobbiamo immaginare che nei 200 istituti in cui la “carriera alias” è già stata introdotta siano numerosi gli studenti che vogliano vedersi riconosciuta una identità sessuale diversa da quella biologica. Se così fosse, bisognerebbe chiedersi come mai. Analoga domanda dovrebbe porsi tutto il ceto docente di fronte all’impennata dei numeri che riguardano la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia.
I dati ufficiali ci sono e parlano chiaro: tra il 2013 e il 2018 le certificazioni di dislessia sono cresciute dell’88,7%, quelle di disgrafia del 163,4%, la disortografia passa al +149,3% e la discalculia al +160,5%. Per quanto importanti, tali aspetti lo sono meno dell’identità di genere. Ma senz’altro anch’essi risentono di fattori ambientali che bisognerebbe indagare e correggere. Invece no, la burocrazia docente si limita a misurare, ad etichettare, a creare protocolli. E, cosa ancor più disgustosa, il ceto politico “progressista” ed inclusivo appoggia i protocolli e una destra rozza e retriva li condanna in nome di non si sa quale morale. Intanto bambini e ragazzi vengono strattonati da adulti confusi. E ci va bene (ammesso che si sappia prendere insegnamento dall’esempio) che il mondo anglosassone sia spesso più avanti di noi nel percorso verso il baratro: la clinica del servizio sanitario britannico Tavistock (Londra), che permetteva il cambio di genere ed eventualmente di sesso a minorenni, anche senza il consenso dei genitori o dei giudici, ma solo dei medici e dei diretti interessati è stata chiusa nell’estate del 2022: rispetto al “metodo Tavistock” un’inchiesta indipendente aveva stabilito che i minorenni che si rivolgevano alla clinica erano “a rischio considerevole di problemi mentali”. Con motivazioni molto vicine a queste adesso, in Italia, si vara la “carriera alias”. Di una cosa siamo certi: la “carriera alias” sarà soltanto un altro pretesto per alimentare un dibattito in cui gli “opposti conformismi” daranno il peggio di sé e non rimuoverà un disagio le cui profonde radici sarebbero da indagare con altra intelligenza e sensibilità.
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