Attualità

Carriera alias, no alle diffide delle associazioni. Bene fanno le scuole, numerose sentenze sostengono il riconoscimento di tale diritto

Riceviamo e pubblichiamo l’articolo di Antonio Rotelli, già assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Udine.

Nei giorni scorsi un’associazione ha annunciato, con un certo clamore mediatico, di aver «diffidato» molte scuole al fine di ottenere il ritiro del «Regolamento per la carriera alias» sotto la minaccia di adire le vie legali. Con questo articolo vorrei offrire alle scuole il punto di vista di un giurista che da anni studia questi temi nell’ambito dell’ordinamento scolastico.

Il regolamento per l’attivazione della «carriera alias» è lo strumento che da qualche anno un numero crescente di scuole va adottando – sulla scia di quanto ben prima hanno fatto le università – per consentire agli studenti e alle studentesse che nel loro percorso di crescita sperimentano un genere non corrispondente a quello che è stato assegnato loro alla nascita, di chiedere di utilizzare nell’ambito della comunità scolastica un prenome di elezione al posto di quello indicato sui documenti. Con questo regolamento le scuole riconoscono dignità al vissuto degli studenti, assicurando un ambiente scolastico che previene e contrasta stereotipi, discriminazioni e marginalizzazione. È questo un modo per realizzare uno dei cardini della missione della scuola, quello di includere le differenze e valorizzare l’unicità di ogni studente «non lasciando nessuno indietro», che è anche un obiettivo dell’Agenda 2030 dell’ONU, riferito pure ai diritti delle persone trans[1].

Soprattutto, questo intervento della scuola tutela l’«identità di genere» che «rientra a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» ed è «elemento costitutivo del diritto all’identità personale» (Corte costituzionale, sentenze nn. 221/2015 e 180/2017). Essa è garantita a ogni persona fin dalla nascita, ovvero fin da quando comincia quel processo individuale di formazione del genere «soggettivamente percepito e vissuto» (Corte Cost. sentenza n. 180/2017), che in alcuni casi non corrisponde al «sesso attribuito nei registri anagrafici, al momento della nascita» (ibidem).

In particolare, in tali casi l’ordinamento italiano ha approntato una legge (n. 164/1982) – ormai vetusta – che garantisce «l’aspirazione della persona alla corrispondenza» del sesso anagrafico al genere percepito, mediante la procedura che è chiamata «rettificazione anagrafica» o, in altre parole, la possibilità di richiedere una sentenza di modificazione del nome e del sesso indicati nell’atto di nascita e in tutti gli altri documenti. Con la stessa sentenza la persona può anche essere autorizzata a compiere gli interventi chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali, laddove si sia autodeterminata a eseguirli per raggiungere il proprio benessere pisco-fisico, tenendo presente che non sono un requisito obbligatorio o imposto dalla legge per ottenere la «rettificazione anagrafica» (Corte costituzionale, sent. nn. 221/2015 e 180/2017).

Va evidenziato, inoltre, che l’identità di genere della persona essendo un aspetto e fattore di svolgimento della personalità che si realizza nella vita di relazione è tutelata e garantita sempre e in ogni momento e non solo nell’ambito della procedura di «rettificazione anagrafica», dal momento che la persona che viva il suo genere non corrispondente al sesso anagrafico, potrebbe non volere o non potere accedere alla «rettificazione» per il riconoscimento di una nuova identità legale, essendo questa il risultato di un processo individuale anche molto lungo (Cassazione, sent. n.15138/2015). Proprio la Corte costituzionale quando parla della «rettificazione» la indica come solo una delle «espressioni» del diritto fondamentale all’identità di genere (Corte costituzionale, sent. n. 180/2017).

Non a caso, infatti, questo diritto fondamentale è calato nell’ordinamento da svariate altre leggi nazionali (per esempio, nel codice della strada con riferimento al divieto di pubblicità discriminatoria; nella protezione dalla violenza di cui alla Convenzione di Istanbul; nella disciplina dell’ordinamento penitenziario; in varie legge che disciplinano l’immigrazione, l’attribuzione della qualifica di rifugiato e la protezione internazionale), leggi regionali (per esempio in Toscana, Liguria, Sicilia, Piemonte, Umbria, Emilia Romagna, Puglia e Campania) ed è protetto dal generale principio di non discriminazione previsto dalla Costituzione, dalla Convenzione europea dei diritti umani e dalle Convenzioni ONU.

A un tribunale che chiedeva alla Corte costituzionale di ripensare il «riconoscimento del diritto alla rettifica dell’attribuzione di sesso, anche in assenza di intervento chirurgico» perché a suo dire avrebbe finito «per prevalere sul diritto della gran parte dei consociati a conservare il pieno “duopolio uomo/donna” ed implicherebbe che la società debba adeguarsi all’estrinsecazione delle sue conseguenze anche verso minori, lavoratori, istituzioni, imponendo loro un mutamento dei tradizionali valori, comunemente accettati», il giudice delle leggi ha ricordato che la legge sulla rettificazione postula «la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale», anche oggetto di eventuale accertamento in sede giudiziale, ma ha pure evidenziato che «la denunciata imposizione di un onere di adeguamento da parte della collettività non costituisce affatto una violazione dei doveri inderogabili di solidarietà, ma anzi ne riafferma la perdurante e generale valenza, la quale si manifesta proprio nell’accettazione e nella tutela di situazioni di diversità, anche “minoritarie ed anomale” (sentenza n. 161 del 1985)» e che «le preoccupazioni del rimettente attengono a situazioni di fatto destinate a verificarsi a prescindere dalla disciplina della rettificazione anagrafica, la quale è volta a regolare una realtà che, prima ancora che nel diritto, esiste nella natura» (Corte cost., ordinanza 185/2017).

Queste ultime affermazioni della Corte ci riportano ai Regolamenti che introducono a scuola la «carriera alias», i quali sono innanzitutto buone pratiche inscrivibili tra i «dovere di solidarietà sociale», con cui si garantisce agli studenti nella vita di relazione intra-scolastica il diritto inviolabile di realizzare la propria identità di genere. Buone pratiche la cui importanza è facilmente apprezzabile richiamando la centralità della scuola quale ambiente in cui si svolge una parte cruciale della vita di ragazzi e ragazze, sia in termini di quantità di tempo che di importanza del potenziale formativo e relazionale.

Agli studenti a cui è assicurata la «carriera alias», che giungano in futuro a realizzare la «rettificazione anagrafica» oppure non, la scuola cerca di evitare per quanto possibile le sofferenze provocate da ripetute e gravi esperienze di non accettazione e di stigma, che – come insegnano le scienze psico-sociali – portano a interiorizzare in termini negativi o patologizzanti una condizione personale che tale non è. Su questo specifico aspetto basti ricordare per tutti l’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha rimosso la condizione di chi vive un genere non corrispondente a quello assegnato alla nascita dalla classificazione dei disturbi mentali, contenuti nel manuale di classificazione internazionale delle malattie (ICD-11), precisando che «il comportamento e le preferenze che costituiscono variazioni di genere da soli non costituiscono la base per l’assegnazione di una diagnosi». Nell’ICD-11 è stato introdotto, invece, un capitolo apposito denominato «Condizioni relative alla salute sessuale» nel quale è utilizzata l’espressione «incongruenza di genere» al fine di permettere che i servizi e le assicurazioni sanitarie, laddove previsto, continuino a coprire i costi sopportati dalle persone che chiedono di accedere a procedure di sostegno psicologico o medico oppure di sottoporsi a interventi chirurgici.

Va ancora evidenziato che il Regolamento per la «carriera alias» risponde a molteplici sollecitazioni ministeriali nei confronti delle scuole perché realizzino pari opportunità e inclusione. Il Ministero dell’istruzione ha adottato linee guida che chiedono alle scuole di adottare ogni strumento utile per combattere tutte le discriminazioni (Ministero dell’istruzione, Linee guida «Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione», decreto ministeriale del 27/10/2017, prot. n. 5515) e prevenire e contrastare il bullismo anche in base all’identità di genere (Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, «Linee di orientamento per azioni di prevenzione e di contrasto al bullismo e al cyberbullismo», decreto ministeriale del 15/04/2015, prot. n. 2519). A questi documenti se ne aggiungono altri che chiedono alla scuola di promuovere la salute di alunni e alunne (per esempio, gli «Indirizzi di ‘policy’ integrate per la Scuola che Promuove salute» della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, 2019).

In particolare, le linee guida in materia di bullismo, pocanzi citate, evidenziano che gli atti di bullismo si configurano «sempre più come l’espressione della scarsa tolleranza e della non accettazione verso chi è diverso per etnia, per religione, per caratteristiche psico-fisiche, per genere, per identità di genere, per orientamento sessuale e per particolari realtà familiari: vittime di bullismo sono sempre più spesso, infatti, adolescenti su cui gravano stereotipi che scaturiscono da pregiudizi discriminatori», concludendo che «è nella disinformazione e nel pregiudizio che si annidano fenomeni di devianza giovanile che possono scaturire in violenza generica o in più strutturate azioni di bullismo». In più, il testo aggiunge che «l’orientamento sessuale o un’identità di genere reale o percepita differente dalla propria» possono far considerare «“diverso” un compagno di classe» in base a «disinformazione e pregiudizi molto diffusi che possono portare a non comprendere la gravità dei casi, a sottostimare gli eventi e a manifestare maggiore preoccupazione per l’orientamento sessuale della vittima che per l’episodio in sé […]. Nel caso specifico, infatti, la vittima di bullismo omofobico molto spesso si rifugia nell’isolamento non avendo adulti di riferimento che possano comprendere la condizione oggetto dell’offesa». Tali considerazioni sono riferite anche alle vittime di bullismo transfobico.

Ugualmente, i documenti in materia di promozione della salute (gli «Indirizzi di ‘policy’ integrate per la Scuola che Promuove salute», ma anche i Piani Nazionali della Prevenzione della salute succedutisi negli anni) stabiliscono che la scuola è il «setting» privilegiato per promuovere la salute fisica e mentale dei ragazzi, dove setting indica «il luogo o il contesto sociale in cui le persone si impegnano in attività quotidiane in cui i fattori ambientali, organizzativi e personali interagiscono tra loro per influenzare la salute e il benessere». Il Piano Nazionale della Prevenzione della salute 2014-2018 (paragrafo 2.3) chiede di ridurre l’influenza negativa di tutti i fattori di rischio, tra i quali sono menzionati la discriminazione e la violazione dei diritti umani, quale «percorso» per raggiungere o mantenere la salute. Aggiungendo che è nei contesti scolastici «che bisogna moltiplicare le azioni a valenza preventiva. A titolo di esempio basti citare il fenomeno del “bullismo” a scuola, che è oggi uno dei problemi più diffusi in Europa. Vivere questa esperienza ha un diretto effetto negativo sulla salute e sul benessere mentale degli studenti e influenza negativamente anche i processi di apprendimento e i risultati scolastici».

Pertanto, il Regolamento per la carriera alias è uno strumento con cui la scuola agisce su un «fattore organizzativo» interno per realizzare anche un’azione di promozione della salute. Inoltre, nella scia delle indicazioni delle linee guida contro il bullismo del 2015, il regolamento si può considerare estrinsecazione del «ruolo educativo» svolto da una scuola realmente inclusiva nel realizzare le pari opportunità; inclusività che «risulta ancor più rilevante nell’accompagnare e sostenere anche le fasi più delicate della crescita» di studenti e studentesse.

Non va trascurato che il Regolamento esplica anche una funzione educativa nei confronti dell’intera comunità scolastica, chiamata a sperimentare in concreto un’esperienza di cittadinanza che evoca il «dovere di solidarietà sociale» nei confronti degli studenti e delle studentesse che chiedono di usufruire della carriera alias. Per esempio, la Commissione ONU sul futuro dell’educazione, in un documento dello scorso anno ha sostenuto: «Reimmaginare il futuro insieme significa immaginare una società in cui la diversità e il pluralismo si rafforzano e arricchiscono la nostra comune umanità. Abbiamo bisogno di un’educazione che ci permetta di andare oltre lo spazio che già abitiamo e che ci accompagni verso l’ignoto. Una pedagogia della solidarietà deve fondarsi su un’educazione inclusiva e interculturale, che tenga conto di tutte le forme di discriminazione e segregazione nell’accesso, compresi i bambini e i giovani con bisogni educativi speciali e coloro che affrontano il bigottismo basato su razza, identità di genere, classe, disabilità, religione o nazionalità. Il diritto all’inclusione, basato sulle diverse realtà di ogni persona, è uno dei diritti umani più importanti. La pedagogia deve accogliere gli studenti nella comunità educativa e aiutarli a sviluppare le capacità di essere inclusivi e di apprezzare la dignità di tutti gli altri. Una pedagogia priva di inclusione indebolisce l’educazione come bene comune e la possibilità di un mondo in cui la dignità e i diritti umani di tutti siano rispettati» (UNESCO, Reimagining our futures together, report from the international commission on the futures of education — A new social contract for education, 2021, pag. 52-53).

Venendo agli aspetti più tecnici del Regolamento per la «carriera alias» va evidenziato che essi sono approvati dai Consigli di istituto in risposta alla domanda che proviene dai genitori che chiedono di consentire ai loro figli l’utilizzo del nome di elezione; domanda che può provenire anche direttamente dagli studenti e dalle studentesse che possano legalmente già decidere per se stessi.

Tutti i regolamenti precisano in più punti che la loro efficacia è meramente interna alla comunità scolastica, intendendo con ciò che non hanno alcuna proiezione all’esterno e non apportano modifiche di alcun genere ai documenti legali degli studenti interessati.

A parere di chi scrive nella «carriera alias» possono essere rintracciati elementi tanto della tutela legislativa dello pseudonimo alla stregua del nome, che si ritrova nell’articolo 9 del codice civile, tanto di un’altra buona prassi interna alla scuola che è quella di utilizzare il cognome della famiglia collocataria, al posto di quello della famiglia di origine, per gli studenti per i quali sia stato aperto o concluso un procedimento per la dichiarazione di adottabilità e ci sia stato l’affidamento provvisorio a una famiglia. In questi casi è uso parlare di «affido a rischio giuridico», perché il collocamento potrebbe essere revocato e non trasformarsi mai in affido preadottivo.

Tuttavia, il fondamento legale del regolamento per la «carriera alias» è nell’esercizio dell’autonomia funzionale, didattica e organizzativa attribuita alle istituzioni scolastiche dal Titolo V della parte II della Costituzione, come disciplinata dal DPR 275/1999, con cui sono state trasferite alle scuole tutte le funzioni «già di competenza dell’amministrazione centrale e periferica relative alla carriera scolastica e al rapporto con gli alunni […]» eccettuate quelle che riguardano il personale scolastico e la disciplina (DPR 275/1999, art. 14, c. 1). La legge afferma che l’autonomia delle istituzione scolastiche è «garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale» e «si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo […]» (DPR 275/1999, art. 1, c. 2). Rispetto alle funzioni attribuite alle scuole «sono abolite tutte le autorizzazioni e le approvazioni» (DPR 275/1999, art. 14, comma 6), mentre «i provvedimenti adottati […] divengono definititi il quindicesimo giorno dalla data della loro pubblicazione nell’albo della scuola». Chiunque ne abbia interesse può proporre reclamo entro lo stesso termine all’organo che ha adottato l’atto, che deve pronunciarsi entro trenta giorni, trascorsi i quali l’atto diviene definitivo (DPR 275/1999, art. 14, comma 7).

C’è anche chi correttamente ha scritto[2] che la scelta della scuola di introdurre il Regolamento trova un ulteriore riferimento nell’applicazione estensiva del principio dell’«accomodamento ragionevole», applicato alla scuola dalla giurisprudenza con riferimento alla libertà religiosa (Cass., Sez. Un., sentenza n. 24414 del 2021) e dalla legge contro le discriminazioni nei luoghi di lavoro con riferimento alla disabilità (D.Lgs.216/2003, art. 3, c. 3-bis). Nell’ambito dell’autonomia che garantisce «margini di flessibilità e adattabilità ai diversi contesti che l’uniformità normativa non garantiva» (Cass., Sez. Un., sentenza n. 24414 del 2021, par. 14.1), l’adozione del regolamento per la «carriera alias» da parte dei Consigli di Istituto che hanno il compito di organizzare la vita e l’attività della scuola (art. 10 D.Lgs. 297/1994) rappresenta «una soluzione mite», che guarda ai diritti di tutti, è «basato sulla capacità di ascolto e sul linguaggio del bilanciamento e della flessibilità», «valorizza le differenze attraverso l’avvicinamento reciproco orientato all’integrazione. La dimensione che lo caratterizza è quella dello stare insieme improntata ad una logica dell’et et, non dell’aut aut» (Cass., Sez. Un., sentenza n. 24414 del 2021, par. 19).

In conclusione, quanto scritto fin qui dovrebbe aver evidenziato sufficientemente l’indiscussa legittimità dell’introduzione da parte delle scuole del regolamento per la «carriera alias» e l’infondatezza dell’intimazione a ritirarlo o ad annullarlo, attraverso l’invio massivo di lettere di diffida tutte dello stesso contenuto. Questa modalità di agire potrebbe essere valutata quale indice di abuso dello strumento processuale il cui esercizio viene minacciato, non escludendo che possa configurarsi la ricorrenza di possibili fattispecie di reato.  


[1] https://www.ohchr.org/en/stories/2015/10/un-chief-lgbt-rights-leave-no-one-behind

[2] Dirigente scolastico Gianluca Dradi, Sulla regolazione della “carriera alias” degli studenti, in https://www.edscuola.eu/wordpress/?p=158094

Redazione

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