Di Annamaria Zizza
Le recenti dichiarazioni di Andrea Gavosto, direttore della fondazione Agnelli, mettono il dito su una piaga dolorosa e apparentemente insanabile: quella dell’ immobilismo nella carriera del docente di ruolo. Perché, dopo l’immissione, che consente la stabilizzazione giuridica ed economica del docente precario, non esiste, di fatto, nessuna formula che consenta avanzamenti stipendiali e di responsabilità se non tramite scatti di anzianità (stipendiali) e concorso (responsabilità e stipendiali): quello, ad esempio, per dirigente scolastico, spesso, tra l’altro, tormentato da continui ricorsi.
Le riviste specializzate sul mondo della scuola hanno enfatizzato, delle dichiarazioni del dirigente della Fondazione, una in particolare: quella secondo cui un criterio per valutare l’operato del docente dovrebbe essere l’opinione che dello stesso si sono fatti il dirigente scolastico, i suoi colleghi e le famiglie degli alunni. L’opinione dovrebbe essere contenuta in un “portfolio” che raccolga dati e carriera del docente: esperienze realizzate, formazione permanente, competenze didattiche, incarichi assunti all’interno dell’ istituto a livello didattico ed organizzativo, e valutazione della realizzazione degli stessi.
Insomma, il docente potrebbe sperare, se dovessero essere comprovate le sue capacità didattiche e gestionali e il suo costante impegno nella direzione di una didattica innovativa e stimolante per l’utenza, in un avanzamento di carriera che lo potrebbe portare persino alla dirigenza della scuola. E magari dovrebbe, per certificare le proprie capacità, effettuare, secondo Gavosto, una lezione simulata coram populo.
Si tratterebbe di applicare anche al mondo della scuola, tendenzialmente refrattario a questa modalità e comunque sempre escluso a priori da essa, l’idea del concorso interno, utilizzato largamente per altri dipendenti statali, ma anche la modalità carrieristica dell’azienda, a cui la fondazione Agnelli è legata per statuto e per ideologia.
E’ noto che ogni anno la fondazione pubblica la graduatoria (Eduscopio) delle migliori scuole superiori d’Italia, selezionate in base ai risultati che gli studenti raggiungono nel loro I anno di studi universitari. La variabile assunta come metro di valutazione è un indicatore ottenuto dalla media ponderata (50% e 50%) del profitto (voto medio) e della velocità di conseguimento dei crediti. Non tutti i docenti attribuiscono alla classifica di Eduscopio valenza di serietà e molte sono le obiezioni a riguardo: ad esempio, si sottolinea che il voto alto non è spesso correlato alla velocità di studio, e che la scelta di una scuola è elemento difficilmente spiegabile tramite grafici e statistiche, perché ha alla base motivazioni talora poco razionalizzabili, come il “congiungimento” con l’amica del cuore delle scuole medie o la maggiore vicinanza alla casa dello studente o ai mezzi pubblici.
Insomma, le variabili sono molte e non facilmente elencabili. Appare evidente che l’idea di scuola alla base della fondazione Agnelli e del suo direttore risulta di stampo manageriale a cui si darebbe, secondo i suoi “nemici” dichiarati, forma di feticcio: ritenere, ad esempio, che l’operato di un docente debba essere valutato da un comitato (perché tale sarebbe de facto) costituito da DS, colleghi e famiglie potrebbe innescare dinamiche assai pericolose, come quella di una didattica potenzialmente asservita all’idea di scuola del DS e delle altre componenti, con cui la didattica del docente in oggetto potrebbe non concordare, sia per modalità che per contenuti. Ritenere, poi, che un docente di ruolo, magari da 20 o 30 anni, debba comprovare la propria efficienza/efficacia appare risibile e pericolosamente simile ad una diminutio capitis del suo ruolo nella scuola, per tacere di quello sociale, già pericolosamente compromesso dagli anni ‘90 in poi.
Sarebbe interessante, di contro, individuare strategie per motivare il corpo docente, che, sebbene manifesti una ancora apprezzabile dedizione al lavoro nella maggior parte dei casi, specie in condizioni difficili sia a livello ambientale che socio-culturale, non è certo esente da derive pericolose, legate alla rassegnazione, alla demotivazione, alla ripetizione di gestualità e didattica trentennale, quando, invece, la professione docente riveste ancora un’importanza centrale nello sviluppo valoriale e culturale dell’individuo.
Allora, perché pensare ad aumenti a pioggia (stigmatizzati, non a caso, da Andrea Gavosto) come a strategie risolutive di un malessere quasi generale, e non ad altre iniziative che possano incentivare il desiderio di migliorare la propria didattica e di migliorarsi anche a livello di formazione culturale? Perché non bandire, dunque, concorsi interni a titoli ed esami, sull’esempio degli altri ministeri della Pubblica Amministrazione; o utilizzare le risorse interne, spesso ignorate o mal gestite, permettendo ai docenti di tenere corsi di aggiornamento di natura anche culturale (e non solo didattica) ai propri colleghi, da retribuire normalmente, così da mettere a disposizione di tutti elementi utili nel lavoro in classe?
Perché non retribuire maggiormente i docenti che insegnano discipline con lo scritto, che svolgono ore in più di pomeriggio per preparare la verifica e correggerla? Non sarebbe una diminutio capitis per gli altri docenti, ma solo un giusto riconoscimento economico per chi spende ore in più del proprio tempo per l’attività didattica e lo fa in orario extracurriculare. Perché, infine, non provare ad utilizzare le classi aperte, per permettere a docenti e alunni un vantaggioso- per entrambi- interscambio di informazioni senza il quale non c’è crescita culturale, didattica e umana?
Pensiamo infatti che non bisogna mai aver paura del confronto con l’altro.
Annamaria Zizza
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