Il potenziamento delle infrastrutture digitali delle scuole italiane fa parte delle priorità contenute nell’atto di indirizzo ministeriale del 2014, ma questo non significa che il Miur intenda proporre l’educazione digitale come nuova materia scolastica. A dirlo è stato il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, intervenendo il 29 gennaio al convegno ‘Educare alla rete. L’alfabeto della nuova cittadinanza nella società digitale’, organizzato dal Garante per la Protezione dei Dati Personali, in occasione della Giornata europea 2014: secondo il responsabile del Miur non bisogna aprire “ad una nuova materia sull’agenda digitale”, ma piuttosto una rivoluzione che riguardi e aggiorni tutta la scuola.
“L’educazione digitale – sostiene il Ministro – è un tema trasversale che va affrontato a livello nazionale, sia per chi utilizza servizi tramite la rete, sia per chi li sviluppa”. Inserire una nuova materia, spiega, “costa qualche milione di euro”. Piuttosto la scuola deve aggiornarsi, “deve cambiare la sua struttura seguendo il nuovo modo in cui il sapere si trasmette. Probabilmente – prosegue – nella scuola 2.0 dovrà cambiare anche l’allestimento delle aule, non più con una didattica frontale”. Un concetto, quest’ultimo, già affrontato nel corso della gestione ministeriale precedente, affidata all’ex ministro Profumo. Ma poi mai portati avanti sul piano pratico, principalmente per i grandi investimenti finanziari di cui avrebbero bisogno.
Gli insegnanti, inoltre, “devono sapere che parte del proprio tempo è andare sull’educazione digitale, non come elemento aggiuntivo ma come parte della propria professionalità”. Diverso potrebbe essere, per l’educazione etica al digitale, che secondo il ministro può riguardare “un’estensione dell’educazione civica, perché gli strumenti dell’accesso alla rete sono tali, così evoluti e pervasivi, che richiedono anche una formazione etica, non solo tecnica”.
Secondo Carrozza, quindi, è “la pubblica amministrazione nel suo complesso che deve cambiare la sua struttura, altrimenti si rimarrà attaccati a schemi settecenteschi, perdendo occasioni per essere competitivi. L’agenda digitale non deve essere vissuta come un’attività a a parte. Questo Paese ha bisogno di giuristi dell’innovazione, perché, se non si parte dal profondo, la partita è persa in partenza”.