Chi scrive le leggi in Italia si rende conto che spesso crea delle condizioni favorevoli per il crescere dei contenziosi in tribunale, con lo Stato messo pure nelle condizioni di soccombere? Probabilmente no. Il paradosso è che la mancanza di attenzione permane anche quando il legislatore produce delle norme “riparative”. È esattamente quello che sta accadendo in questi giorni di fine anno scolastico, caratterizzati come non mai dalle influenze sulla politica italiana da parte dell’Unione europea, soprattutto per via dei tanti miliardi del Pnrr che Bruxelles ha stanziato per il nostro Paese (anche se i due terzi dovranno essere restituiti).
La limitatezza si riscontra nella bozza di decreto legge sulle “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’unione europea e da procedure di infrazione e pre-infrazione pendenti nei confronti dello stato italiano”: il Governo si sta apprestando ad approvare, infatti, il riconoscimento della Carta docente, originariamente prevista solo per il personale di ruolo, anche al personale precario. Solo che l’allargamento sembra riguardare una ristrettissima cerchia di supplenti: quelli che firmano ogni anno i contratti fino al 31 agosto dell’anno successivo. Rimarranno quindi fuori, salvo sorprese, coloro che svolgono supplenze fino al 30 giugno e quelli che insegnano per oltre 180 giorni oppure con contratti continuativi almeno dal primo febbraio sino agli scrutini.
Il problema è che i precari esclusi, considerando decine di migliaia di posti in deroga su sostegno, rappresentano di fatto la stragrande maggioranza dei supplenti.
Perché questa differenziazione? Sarebbe interessante saperlo. Anche perché la Corte di Giustizia europea nella sentenza del maggio 2022, che ha dato poi il via a migliaia di ricorsi vinti dai sindacati, non ha fatto queste differenziazioni. Per la Corte Ue, ma anche per la Cassazione e il Consiglio di Stato, l’unica categoria di precari che potrebbe non avere accesso alla carta annuale per l’aggiornamento (utile ad assolvere il diritto-dovere dell’aggiornamento delle conoscenze, fondamentale per ogni insegnante) è quella dei supplenti con contratti cosiddetti “brevi e saltuari”. Gli altri, tutti gli annuali che continuerebbe a rimanere esclusi (tranne i contrattualizzati con scadenza 31 agosto), avrebbero quindi buoni motivi per continuare a chiedere al giudice (e ottenere) i 500 euro annuali dell’aggiornamento.
Non va meglio per le novità in arrivo sulla ricostruzione di carriera. Sempre scorrendo la bozza del decreto legge salva-infrazioni, risultano presenti importanti novità anche per il meccanismo di ricostruzione di carriera per il personale docente e Ata della scuola, oltre che per il personale del settore Afam. E si tratta di modifiche non da poco, se si considera che parliamo di disposizioni presenti da quasi 30 anni nel decreto legislativo 297/94.
Il problema è che anche l’attesa modifica dell’articolo 485 del cosiddetto Testo unico della scuola contiene delle contraddizioni pressoché inspiegabili.
Il testo attualmente in vigore prevede infatti che il servizio prestato presso le scuole statali e pareggiate, sia soggetto al limite del servizio pre-ruolo riconosciuto per intero solo per i primi quattro anni (e per i due terzi del periodo eventualmente eccedente). Una norma, pure questa, sulla quale sia la Corte di giustizia UE sia la Corte di Cassazione hanno avuto più di qualcosa da ridire.
Il problema è che con la modifica in CdM viene cancellato anche il meccanismo che permetteva la valutabilità del servizio di insegnamento come anno scolastico intero subito dopo avere raggiunto un minimo di 180 giorni di servizio: per gli immessi in ruolo dal prossimo 1° settembre, ad essere valutato sarà quindi solo il servizio di insegnamento effettivamente prestato.
Come abbiamo già avuto modo di scrivere, non essendo più sufficiente aver prestato almeno 180 giorni di servizio, per molti neo-immessi in ruolo la nuova ricostruzione di carriera “risulterà meno favorevole rispetto ai docenti che, a parità di servizio pre ruolo, l’hanno ottenuta secondo le disposizioni dell’art.485 attualmente in vigore”. Una possibilità che prefigura, quindi, diversità di trattamento. E probabili intensificazioni dei ricorsi.
Invece, il nuovo meccanismo di ricostruzione della carriera per il personale Ata si profila più favorevole rispetto all’attuale normativa.
“Secondo l’attuale formulazione dell’art.569 del D.lvo 297/94 – abbiamo ancora fatto osservare – per il personale Ata il servizio non di ruolo prestato nelle scuole e istituzioni educative statali è riconosciuto sino ad un massimo di tre anni agli effetti giuridici ed economici e, per la restante parte, nella misura di due terzi, ai soli fini economici. Il decreto salva-infrazioni prevede infatti la modifica della predetta disposizione, con la previsione che per il personale Ata immesso in ruolo a far data dall’a.s. 2023/2024, il servizio non di ruolo prestato nelle scuole e istituzioni educative statali è riconosciuto per intero agli effetti giuridici ed economici”.
Stando così le cose, il probabilissimo incremento del numero dei ricorsi si intravede già dai primi comunicati sindacali: “Finalmente cambiano il sia il Testo Unico, sia la Buona Scuola, come chiesto da Anief, che continuerà però il contenzioso anche per tutti gli altri supplenti esclusi dalla Carta docente nonché per tutto il personale assunto in ruolo fino ad oggi nell’impianto i decreti di ricostruzione di carriera”, ha commentato il sindacato guidato da Marcello Pacifico.
Per capire se si andrà verso questa direzione, adesso c’è solo da aspettare il testo che effettivamente il Governo si appresta ad approvare: se confermato quello della bozza qui commentata, per i tribunali si prospetta una nuova intensa stagione di contenziosi in arrivo.
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