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Caso Berchet di Milano: il dibattito continua

“Il problema della valutazione è un argomento delicato che mette in gioco sicuramente la necessità da parte della scuola di misurare lo scostamento tra quanto è stato raggiunto e gli obiettivi attesi, ma anche complesse implicazioni psicologiche. Il voto lo studente lo interpreta come l’immagine che il docente ha di lui e dunque come una valutazione della sua persona.
È sbagliato per esempio che un insegnante dia voti sempre molto bassi e il suo collega, della stessa materia, nella classe accanto dia voti sempre molto alti. Se questo poi si ripete tutti gli anni, vuoi dire che gli insegnanti non si sono confrontati sul senso di quei voti. E allora forse la soluzione non è il numerino con cui si valuta, ma nella corretta relazione educativa che deve avere il docente con i suoi studenti. Perché una cosa è chiara: il buon voto non misura solo il successo dello studente, ma anche la bontà e l’efficacia del lavoro del docente”.
In estrema sintesi è questo il parere del dirigente scolastico del Berchet di Milano, a cui altri rispondono dicendo che non è con la rotazione nella correzione dei compiti che si risolve il problema dell’equità. E a suffragio portano il discorso anche su ambiti più delicati come quelli sulla presunta disparità di valutazione tra i ragazzi del Nord e quelli del Sud, riscontrabile con i voti finali degli esami di Stato: “Il problema reale”, viene sostenuto, “è la preparazione e il costante aggiornamento (non solo tecnico) dei docenti in questo settore quanto mai basilare. E che in tale quadro ci si muova sempre schizzofrenicamente, lo ha appena ricordato il Rapporto Lombardia sulle forti differenze a livello valutativo tra Nord e Sud, esemplandolo nelle abissali disuguaglianze tra Lombardia e Calabria.”
Tuttavia proprio agli esami di Stato si verifica quell’avvicendamento di docenti tanto caro al preside del Berchet, per cui a rigore di logica, anche il discorso sulla qualità valutativa fra i docenti e la loro presunta disparità di trattamento è per lo più garantita e poco dovrebbe cambiare, mentre la funzione del dirigente, come quella del presidente della commissione alla maturità, è quella equilibratrice e di garanzia di equità fra tutti i candidati.
La soluzione non sta quindi nella rotazione, bensì su in un confronto che ciascun preside dovrebbe avviare nella sua scuola sul concetto di valutazione e sull’effettivo ruolo che può avere un processo formativo, come avviene, o dovrebbe avvenire, all’atto dell’insediamento delle commissioni.
Fra l’altro il concetto di errore e di qualità del giudizio è sempre relativo, proporzionale, si potrebbe dire, alla preparazione del singolo docente, alla sua sensibilità e al rapporto che ha saputo creare con i suoi allievi; valutazione che poi il “maestro” dovrà tradurre in numero. Ma non solo, si potrebbe pure parlare delle possibili differenze di impostazione nella proposta didattica e sullo sviluppo dei programmi che alla fine fanno anche la differenza.
Nella valutazione inoltre entrano in gioco diversificate variabili, soprattutto la conoscenza del ragazzo da parte del docente, che “può agire nel premio o nella censura, in base a un percorso educativo e formativo personalizzato, che chi viene da un’altra sezione non possiede”. E infatti chi avrebbe mai potuto giudicare meglio di Socrate i suoi allievi? Un sofista? E chi altro avrebbe potuto incaricare Pietro di fondare la “Sua” Chiesa se non il maestro col quale aveva convissuto tanti anni?
Il punto è forse quello di ridare dignità e valore all’istruzione, ma partendo dal docente, dal “Rabi”, del quale mai nessuno veramente si è curato, tranne a togliere e levare.

Pasquale Almirante

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