Categorie: Attualità

Caso Cucchi, assolti i cinque medici. L’ira degli studenti di Legge

Anche la terza Corte di Assise d’appello di Roma, nella giornata di ieri, lunedì 18 luglio, ha confermato l’assoluzione dei cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini.

Sono coloro che hanno avuto in cura Stefano Cucchi prima del suo decesso. I cinque medici, condannati in primo grado nel giugno 2013, erano stati poi assolti in appello per “insufficienza di prove”. Ma a dicembre 2015 la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza ed espresso la necessità di un appello-bis, non ritenendo sufficientemente convincenti le motivazioni alla base dell’assoluzione dei cinque medici.
Ma anche stavolta, secondo i giudici, “il fatto non sussiste”.
Ilaria Cucchi, che non ha mai smesso di reclamare giustizia per suo fratello, affida il suo amaro sfogo a Facebook, dove posta una foto del cadavere di Stefano e scrive: “Ciao Stefano, tu eri già così. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. […]Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto.”
Ora sarà il turno dell’inchiesta-bis nei confronti dei cinque carabinieri, di cui tre indagati per lesioni personali aggravate e abuso di autorità e due per falsa testimonianza.
Era il 15 ottobre 2009 quando Stefano Cucchi, geometra romano, venne arrestato per poi morire una settimana dopo presso l’ospedale Sandro Pertini di Roma, mentre si trovava sotto custodia cautelare. Quattordici gli imputati: sei medici, tre infermieri e cinque carabinieri. Altrettanto numerose le accuse: abbandono d’incapace, favoreggiamento, abuso d’ufficio, falsità ideologica, lesioni, abuso di autorità.
Durante il processo di primo grado l’accusa sostenne che Cucchi avesse subito un vero e proprio pestaggio nelle camere di sicurezza di Roma, mentre era in attesa dell’udienza di convalida dell’arresto per droga.
Poco dopo il medico del tribunale aveva notato delle contusioni sul volto del giovane che fu portato al Fatebenfratelli, dove furono riscontrate ulteriori lesioni. Il giovane rifiutò il ricovero, ma il giorno successivo, il 17 ottobre, fu portato al Pertini.
In ospedale poi sarebbero state ignorate le sue richieste di farmaci e fu lasciato morire di fame e di sete. Al momento della morte, il 22 ottobre, il giovane pesava 37 chili. La sentenza di primo grado, del 5 giugno 2013 condannava i sei medici per omicidio colposo, assolvendo infermieri ed agenti che, secondo i giudici, non avrebbero contribuito in alcun modo. Per la Corte d’Assise dunque Cucchi non fu mai malmenato, non morì per le percosse ma per la negligenza dei medici. Da qui il risarcimento versato alla famiglia Cucchi dall’ospedale Pertini.
Nonostante siano ormai trascorsi sette anni la vicenda sembra ben lontana da una fine giudiziaria. Ilaria Cucchi ha lanciato una petizione su change.org affinché lo Stato approvi entro la fine dell’anno una legge contro la tortura.
Posso solo dire che è dura.” scrive “È molto dura. Talvolta viene veramente voglia di arrendersi. Ma non voglio farlo. Qualcosa si muove”.
Il caso Cucchi è di fatto uno dei tanti casi che hanno lasciato la comunità italiana perplessa circa l’applicazione della legge. Sono numerosissimi i nomi dei ragazzi che, come Stefano, hanno perso la vita in circostanze sospette, circostanze sulle quale ormai appare evidente una non volontà di fare chiarezza.

Quello che non è evidente però è la motivazione dell’atteggiamento della giustizia. Il che suona a dir poco paradossale, se si pensa che in Italia la facoltà che conta più iscritti è proprio la facoltà di legge. Sarà dovuto ad un comune interesse per le discipline giuridiche o da una voglia di riscatto nei confronti di una ormai diffusa sfiducia generale nei confronti delle istituzioni?
Nel frattempo sui social, soprattutto da parte dei più giovani, numerosi i messaggi di solidarietà alla famiglia Cucchi. Una ragazza scrive ad Ilaria: “È dura studiare sui libri qualcosa che poi nella realtà non esiste. Mi ricordo quando sei venuta nella mia facoltà a Roma Tre e hai detto una frase che parlava di speranza, la speranza in noi giovani che ci avviciniamo alla macchina della giustizia per poter cambiare qualcosa. Quella frase mi è rimasta impressa, e ce la metterò, ce la metteremo tutta per cambiare questo sistema malefico”.

 

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Giulia Mirimich

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