Gli studenti che impediscono ai compagni e ai loro docenti di entrare a scuola, incorrono nel reato di violenza privata e interruzione di pubblico servizio.
A sostenerlo è la Corte di Cassazione, chiamata ad esprimersi sullo svolgimento di un’assemblea studentesca autogestita, svolta nel 2014 durante un’occupazione temporanea di qualche ora nell’istituto superiore ‘Giordano Bruno’ di Mestre: in quella circostanza, furono lasciati entrare a scuola, attraverso un portone secondario, solo allievi e personale d’accordo con la protesta.
RESPINTO IL RICORSO DELLO STUDENTE ‘OCCUPANTE’
La Quinta sezione penale della Suprema Corte, confermando la sentenza emessa dal Gup del tribunale dei minori di Venezia nel 2014 nei confronti di uno degli studenti ‘picchettatori’, nel condannare questo genere di scelta imposta ha anche consigliato gli studenti insoddisfatti della situazione scolastica di ricorrere a forme più soft di contestazione, come la cosiddetta “autogestione istituzionale”: altrimenti, adottando “picchettaggi”, crescono i rischi di incorrere nella giustizia penale, a seguito di possibili denunce presentate da dirigenti scolastici, docenti e genitori per interruzione di servizio pubblico,
Con la sentenza 7084, la Suprema Corte ha infatti respinto il ricorso con il quale uno studente dell’istituto veneto sosteneva che l’occupazione della scuola rientra nel diritto alla libertà di associazione tutelato dall’articolo 18 della Costituzione e che anche gli studenti hanno diritto a scioperare.
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I MOTIVI DELLA SENTENZA
I giudici hanno sottolineato che “al personale docente, amministrativo e agli studenti (che non aderivano alla manifestazione) fu impedito l’accesso, perchè il portone principale della scuola era stato sbarrato e l’accesso era consentito solo attraverso una porta di sicurezza laterale dove, per entrare, si dovevano contrattare le condizioni di ingresso che era stato subordinato all’adesione alla manifestazione”.
La Cassazione ha aggiunto che “i giudici di merito non hanno affatto negato” al giovane imputato (ora maggiorenne, ha comunque ottenuto il perdono giudiziale) “la titolarità del diritto di sciopero (diritto peraltro difficilmente riconducibile alle situazioni soggettive ravvisabili in capo allo ‘studente’), di riunione o di manifestazione del pensiero”.
Ma hanno invece “chiaramente affermato, in aderenza alla giurisprudenza di questa Corte, – prosegue la Cassazione – che lo stesso esercizio di diritti fondamentali, quali quello di sciopero, riunione e di manifestazione del pensiero, cessa di essere legittimo quando travalichi nella lesione di altri interessi costituzionalmente garantiti”. Ed è quello che è “esattamente” avvenuto in questo caso dato che “l’occupazione temporanea della scuola per circa due ore, ha di fatto impedito ai non manifestanti di svolgere le consuete attività di studio per un tempo apprezzabile, con conseguente ingiustificata compressione dei loro diritti”.
LA TOLLERANZA IN PRECEDENTI OCCASIONI NON GIUSTIFICA L’ATTO
Inoltre la Suprema Corte ha spiegato che le occupazioni selvagge o a ‘singhiozzo’ sono “iniziative arbitrarie” mentre si poteva dar vita ad una “autogestione programmata, con obbligo di preavviso”, come aveva indicato il gup, questo per chiarire che “l’imputato aveva altri strumenti per impostare un dialogo costruttivo con i compagni di scuola e il corpo docente”.
Quanto all’obiezione dello studente che ha detto di aver agito in base all’art. 18 della Costituzione sulla libertà di associazione, facendo presente che le precedenti occupazioni non erano state seguite dalla ‘mano pesante’, la Cassazione ha replicato che “nessuna norma autorizzava l’imputato ad associarsi con altri studenti nella maniera da lui pretesa e a comprimere il diritto di coloro che volevano partecipare allo svolgimento delle lezioni o a rendere la prestazione lavorativa”.
Quanto al venir meno del permissivismo, la Cassazione conferma quanto scritto dal gup: “lo studente era un soggetto intellettualmente attrezzato, perfettamente in grado di comprendere il carattere antisociale delle sue azioni, per cui era anche in grado di capire che la tolleranza manifestata in precedenti occasioni non rendeva lecita la sua condotta nè poteva essere posta a base di comportamenti indefinitamente protratti nel tempo, specie di fronte alla aperta opposizione della dirigenza”.
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