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Cattedre miste: no dei Partigiani della Scuola Pubblica

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Sulla esperienza delle “cattedre miste” che da diversi anni si sta realizzando in molte scuole d’Italia arriva l’altolà di Partigiani della Scuola Pubblica, Accademia Nazionale Docenti e Rete dei 65 Movimenti.

L’esperienza in questione consiste nel fatto che, laddove vi sono condizioni che lo consentono, l’attività didattica per gli alunni disabili viene svolta in parte dall’insegnante nominato sulla cattedra di sostegno e in parte dall’insegnante curricolare specializzato. L’idea che sta alla base di questo modello è quella di evitare l’equazione insegnate di sostegno=insegnante dell’alunno disabile, in modo da impedire per quanto possibile che al docente di sostegno venga delegato in toto o in larga misura il compito garantire i processi di inclusione.
L’inclusione, spiegano infatti i sostenitori di questo modello, è un progetto educativo complessivo che deve necessariamente coinvolgere l’intero team docente e che non può essere affidato ad un solo insegnante.

Questo modello è stato recentemente ufficializzato anche sotto il profilo normativo. Il secondo comma dell’art. 14 del decreto legislativo 66/17 così recita:  “Per valorizzare le competenze professionali e garantire la piena attuazione del Piano annuale di inclusione, il dirigente scolastico propone ai docenti dell’organico dell’autonomia di svolgere anche attività di sostegno didattico, purché in possesso della specializzazione, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 1, commi 5 e 79, della legge 13 luglio del 2015, n. 107”.

Per i Partigiani della Scuola Pubblica ci sono almeno tre buoni motivi per dire no alle cattedre miste o lo spiegano diffusamente in un loro comunicato.

Innanzitutto c’è il fatto che “la docenza del sostegno verrebbe percepita e gestita come un tappabuchi e uno scarto (per esempio, assegnando 13,5 ore di docenza su materia e 4,5 ore su sostegno), col risultato evidente di uno svilimento della didattica e uno scompenso a svantaggio totale dell’alunno con disabilità”
“D’altra parte – proseguono – se la composizione oraria fosse al 50% ci sentiamo di dire che senza dubbio alcuno lo studente con disabilità ne verrebbe, parimenti, svantaggiato perché il docente ‘misto’ si troverebbe incastrato nel meccanismo della rincorsa a completare il programma in tempo (non nascondiamoci dietro a un dito: questa è realtà che tutti conoscono bene)”.
In secondo luogo “tutte le attività collaterali svolte dal docente di sostegno verrebbero totalmente svilite e depotenziate”.
“Pensiamo ad esempio – spiegano – al semplice rapporto scuola famiglia, in moltissimi casi necessario di colloqui quotidiani e riprogettazione condivisa, o addirittura con rapporti frequenti con le agenzie territoriali come i servizi sociali. Nonché il lavoro di raccordo quotidiano con gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione, quando assegnati, o con i logopedisti, eccetera”.
Ma c’è una terza ragione che gli estensori del documento considerano del tutto dirimente: “In una situazione di emergenza italiana sul sostegno in cui i docenti specializzati non bastano (e al tempo stesso quei pochi precari dotati di specializzazione non vengono assunti a tempo indeterminato), si vuole usare il docente specializzato come tappa buchi (perché questo sarebbe)? A vantaggio di chi? Questo quesito getta ombre scure sui diritti degli alunni con disabilità, la cui punta minima nella mancanza della tutela recente (eccetto il passato inglorioso delle scuole speciali) sembrava essere l’attuazione del D.Lgs 66/17, soprattutto nella parte del GIT e del ridimensionamento del GLHO”.

Reginaldo Palermo

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