«Almeno un’ora al giorno rialziamo la testa, stacchiamoci dalle catene di una dipendenza subdola e menomante. Altrimenti anche noi rischiamo di essere usati dalle nuove forme di comunicazione spersonalizzanti piuttosto che dimostrarci responsabili utilizzatori di strumenti concepiti al nostro servizio e diventati invece moderne forme di schiavitù». Parola di don Aldo Buonaiuto, direttore del quotidiano In Terris e sacerdote della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Potrebbe essere proprio la Scuola il luogo dove reimparare a ragionare, ascoltare, apprendere guardandosi negli occhi?
A dare l’allarme sulla dipendenza generalizzata da smartphone era stato lo stesso papa Francesco, che fin dal settembre 2016 aveva ammonito: «A tavola, in famiglia, quante volte si mangia, si guarda la tv o si scrivono messaggi al telefonino! Ognuno è indifferente quell’incontro. Anche proprio nel nocciolo della società, che è la famiglia, non c’è l’incontro», perché tutti «si incrociano fra loro, ma non si incontrano», vedono ma non guardano, pensano a sé, sentono ma non ascoltano. Umani trasformati in automi, mentre le macchine imitano sempre più capacità e prerogative umane. Lo aveva previsto il grande psicoanalista, sociologo, psicologo, filosofo Erich Fromm già mezzo secolo fa: «Il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che gli uomini diventino robot».
A tutti è capitato di parlare con una persona e capire di non essere ascoltati perché la persona in questione è immersa nella contemplazione del telefono. In metropolitana, se ci si guarda intorno, ci si accorge di essere gli unici a guardarsi intorno: gli altri sono tutti intenti a scambiar messaggi, vedere film in cuffia, giocare ai videogame. Seppure il treno è stracolmo, l’importante è riuscire a tenere il cellulare sotto il naso (anche a costo di non reggersi agli appositi sostegni, come le norme e la logica suggeriscono). Nessuno guarda negli occhi il vicino, nessuno comunica, nessuno vede chi gli è accanto. A prender coscienza di ciò, ci si sente soffocare e vien voglia di scappare via.
Quali danni tutto ciò sta apportando alla mente umana? In che modo stanno crescendo le giovanissime generazioni (e soprattutto quelle in età scolare)? Scuola e insegnanti non devono forse prendere coscienza di essere oramai l’unico argine di umanità contro questo snaturamento costante delle nostre vite, che sempre più ci trasforma in consumatori/spettatori/cooperatori compulsivi di un nuovo modello di società (dis)umana a misura di multinazionale?
«I tempi necessari alla riflessione e al discernimento vengono considerati inutili», ha scritto il 15 gennaio scorso Aldo Buonaiuto sul quotidiano In Terris; «prevale ovunque la dittatura della velocità; il termine inglese “smart” è divenuto sinonimo di efficienza e rapidità di pensiero e azione. Sui social rimbalzano come in un videogame immagini di guerre, giovani vite spezzate sulle strade, bimbi che affogano in mare, gossip regale e persino dispute dottrinarie che tengono banco sui mass media mondiali. Cosa hanno in comune questioni così diverse? Il disprezzo per la lentezza, identificata come negazione di una modernità che divora tutto nel lampo di un tweet. Non c’è ormai colloquio nel quale si possa guardare l’interlocutore negli occhi per più di un minuto; basta un trillo per indurre chinare la testa sul nuovo despota: la tecnologia. Persino durante la Messa si scappa dalla Chiesa quando il tiranno richiama il suo schiavo (…). L’adorazione del nuovo imbonitore arriva al punto da sostituire relazioni familiari con sudditanze virtuali, e addirittura in medicina si diagnostica una pericolosa malattia: la nomofobia, cioè il terrore patologico di non essere connessi». Troppi ambiscono solo a «nevrotizzarsi alla vana ricerca di un profitto d’immagine misurabile in like ricevuti».
E a Scuola? I cellulari vanno messi da parte? Non secondo l’attuale Ministra, che — non diversamente dai suoi predecessori in Viale Trastevere — ha in passato ribadito più volte la necessità che i docenti insegnino agli allievi ad usare “correttamente” gli smartphone, e che Scuola e didattica siano sempre più tecnologiche.
Ma — a parte ogni altra considerazione — con quali infrastrutture? Con quelle consentite dai (miserrimi) fondi destinati alla Scuola? Gli istituti scolastici italiani sono al venticinquesimo posto in Europa per digitalizzazione; ben lo sanno i docenti italiani, costretti in moltissime scuole a collegarsi con il registro elettronico attraverso il proprio tablet (pagato di tasca propria) perché la connessione dell’istituto è troppo lenta o il computer fornito dalla scuola è troppo vecchio.
Se anche in campo informatico la Scuola italiana continuerà a celebrare sontuose nozze coi fichi secchi, sarà impossibile ai docenti distogliere gli alunni dai cellulari, e ancor più riuscire a dimostrare che il cellulare va usato “cum grano salis” e in modo responsabile.
Con tutti i danni che questo comporterà.
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