La ricerca è stata presentata oggi a Roma, presso il Censis, da Giuseppe De Rita e Giuseppe Roma, Presidente e Direttore Generale del Censis, e discussa da Antonio Silvano Andriani, Presidente del Forum Ania-Consumatori, Angelo Ferro, Presidente della Fondazione Oic Onlus, Carlo Flamment, Presidente del Formez Pa, Natale Forlani, Direttore Generale dell’Immigrazione e delle politiche di integrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, e Cesare Vaciago, già Direttore Generale del Comune di Torino.
Tra il 2007 e il 2012 nel Mezzogiorno il Pil si è ridotto del 10% in termini reali a fronte di una flessione del 5,7% registrata nel Centro-Nord. Nel 2007 il Pil italiano era pari a 1.680 miliardi di euro, cinque anni dopo si era ridotto a 1.567 miliardi. Nella crisi abbiamo perso quindi 113 miliardi di euro, molto più dell’intero Pil dell’Ungheria, un Paese di quasi 9 milioni d’abitanti.
Il Centro-Nord (31.124 euro di Pil per abitante) è vicino ai valori dei Paesi più ricchi come la Germania, dove il Pil pro-capite è di 31.703 euro. Mentre i livelli di reddito del Mezzogiorno sono inferiori a quelli della Grecia (17.957 euro il Sud, 18.454 euro la Grecia).
Il mercato del lavoro si destruttura e si impoverisce ulteriormente. Dei 505.000 posti di lavoro persi in Italia dall’inizio della crisi, tra il 2008 e il 2012, il 60% ha riguardato il Mezzogiorno (più di 300.000). Il Sud paga la parte più cospicua di un costo già insopportabile per il Paese e si conferma come un territorio di emarginazione di alcune categorie sociali, come i giovani e le donne.
Un terzo dei giovani tra i 15 e i 29 anni non riesce a trovare un lavoro (in Italia il tasso di disoccupazione giovanile è al 25%). Se poi oltre a essere giovani si è donne, la disoccupazione sale al 40%. Il tasso di disoccupazione femminile totale è del 19% al Sud a fronte di un valore medio nazionale dell’11%.
I disoccupati con laurea sono in Italia il 6,7% a fronte del 10% nel Mezzogiorno.
Un tessuto d’impresa a rischio di deindustrializzazione. Un sistema imprenditoriale già fragile e diradato, se messo a confronto con quello del Centro-Nord, è stato sottoposto negli ultimi anni a un processo di progressivo smantellamento, costellato da crisi d’impresa molto gravi come quelle dell’Ilva di Taranto e della Fiat di Termini Imerese.
Tra il 2007 e il 2011 gli occupati nell’industria meridionale si sono ridotti del 15,5% (con una perdita di oltre 147.000 unità) a fronte di una flessione del 5,5% nel Centro-Nord. Oltre 7.600 imprese manifatturiere del Mezzogiorno (su un totale di 137.000 aziende) sono uscite dal mercato tra il 2009 e il 2012, con una flessione del 5,1% e punte superiori al 6% in Puglia e Campania.
Si allargano le distanze sociali. Il Mezzogiorno resta un territorio in cui le forme di sperequazione della ricchezza non diminuiscono, ma anzi si allargano. Calabria, Sicilia, Campania e Puglia registrano indici di diseguaglianza più elevati della media nazionale.
Il 26% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno è materialmente povero (cioè con difficoltà oggettive ad affrontare spese essenziali o impossibilitate a sostenere tali spese per mancanza di denaro) a fronte di una media nazionale del 15,7%.
E nel Sud sono a rischio di povertà 39 famiglie su 100 a fronte di una media nazionale del 24,6%. Il persistere di meccanismi clientelari, di circuiti di potere impermeabili alla società civile e la diffusione di intermediazioni improprie nella gestione dei finanziamenti pubblici contribuiscono ad alimentare ulteriormente le distanze sociali impedendo il dispiegarsi di normali processi di sviluppo. Fondi europei: risorse non spese e programmi inefficaci. I contributi assegnati per i programmi dell’Obiettivo Convergenza destinati alle regioni meridionali ammontano a 43,6 miliardi di euro per il periodo 2007-2013.
A meno di un anno dalla chiusura del periodo di programmazione risulta impegnato appena il 53% delle risorse disponibili e spesi 9,2 miliardi (il 21,2%). Anche l’efficacia dei programmi attivati con i fondi europei è discutibile.
Uno dei principali fattori di debolezza del Sud è ancora oggi l’incapacità del sistema educativo di accompagnare i processi di sviluppo attraverso la formazione di un capitale umano qualificato, contribuendo così a contrastare il disagio sociale ed economico della popolazione.
La spesa pubblica per l’istruzione e la formazione nel Mezzogiorno è molto più alta di quella destinata al resto del Paese: il 6,7% del Pil contro il 3,1% del Centro-Nord, ovvero 1.170 euro pro-capite nel Mezzogiorno rispetto ai 937 del resto d’Italia (ovvero il 24,9% in più).
Eppure, il tasso di abbandono scolastico è del 21,2% al Sud e del 16% al Centro-Nord, i livelli di apprendimento e le competenze sono decisamente peggiori, tutte le regioni meridionali si caratterizzano per una incidenza del «fenomeno Neet» superiore alla media nazionale: il 31,9% dei giovani di 15-29 anni non studiano e non lavorano, con una situazione da emergenza sociale in Campania (35,2%) e in Sicilia (35,7%). E il 23,7% degli iscritti meridionali all’università si è spostato verso una localizzazione centro-settentrionale, contro una mobilità di solo il 2% dei loro colleghi del Centro e del Nord.
Secondo il rapporto Censis ”uno dei principali fattori di debolezza del Sud è ancora oggi l’incapacità del sistema educativo di accompagnare i processi di sviluppo attraverso la formazione di un capitale umano qualificato, contribuendo così a contrastare il disagio sociale ed economico della popolazione.”
L’abbandono della sanità pubblica e i bisogni assistenziali crescenti. Il progressivo deterioramento dei servizi sanitari negli ultimi cinque anni è riferito dal giudizio dei cittadini: lo afferma il 7,5% al Nord-Ovest, l’8,7% al Nord-Est, il 25,6% al Centro e addirittura il 32,1% al Sud. Il 17,1% dei residenti meridionali si è spostato in un’altra regione per farsi curare, non fidandosi della qualità e della professionalità disponibili nella propria. Forte è la tendenza all’aumento della longevità. Si prevede al 2030 un incremento della popolazione anziana di oltre il 35% contro dinamiche di crescita meno marcate nelle altre aree geografiche. In parallelo crescerà molto anche il numero dei non autosufficienti, destinati a superare i 783.000, con un balzo di oltre il 50%.
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