Fondazione Carolina, la onlus che dal 2017 si occupa a livello nazionale e internazionale di cyberbullismo e educazione ai media, attraverso le parole del suo Segretario generale, Ivano Zoppi, si esprime su ChatGpt, soprattutto sui timori generati dalle prese di posizione di molte scuole e atenei in diverse parti del mondo, dagli Stati Uniti all’Australia.
Da qualche settimana, prima la Rete e poi i media tradizionali, sono stati travolti da uno tsunami, potenzialmente in grado di rivoluzionare la capacità elaborativa di ciascuno di noi: ChatGpt, un servizio online disponibile sulla piattaforma OpenAI, un software che permette di scrivere quello che vogliamo, utilizzando 175 miliardi di parametri per confezionare un pensiero artefatto, ma credibile, che risponda alle proprie esigenze.
Purtroppo, o per fortuna (dipende dai punti di vista), questo strumento ha ancora dei limiti.
Non sa nulla, non lo verifica, ma più semplicemente organizza un testo sulla base delle informazioni richieste secondo un ordine probabilistico, quindi non deterministico, che simula una coerenza concettuale e formale nello sviluppo dei contenuti. La fonte? Più o meno tutto lo scibile su internet, più che altro Wikipedia, Google Books e tutti i manuali presenti in rete. Nessuna verifica, nessuna certificazione di autenticità, nessuna validità scientifica. Il tutto con una costruzione spesso ripetitiva e certamente poco originale, dato che “ragiona” secondo i campi semantici più utilizzati.
In campo professionale può rappresentare un valido supporto organizzativo e gestionale, ad oggi però qualsiasi mestiere intellettuale è più a rischio di quanto non lo sia già per via dello strapotere dei motori di ricerca e dei social network.
La soluzione drastica adottata negli Stati Uniti, a favore dello status quo, secondo noi non risolve un problema, o meglio una sfida che, presto o tardi, obbligherà tutto il sistema istruzione, per come oggi lo conosciamo, a modificare un modello tuttora ancorato al secolo scorso.
La tecnologia, del resto, non si può fermare, ma va gestita da una governance in linea con i nuovi linguaggi e con le esigenze della società digitale. Al dibattito non si è sottratto il Ministro dell’Istruzione del nuovo Governo, Giuseppe Valditara, che ha manifestato un atteggiamento tutt’altro che ostativo rispetto ad una tecnologia da non demonizzare.
Il commento del Ministro si sofferma sulle nuove opportunità che l’intelligenza artificiale potrebbe riservare per la didattica, “migliorando i percorsi formativi” e “aumentando l’interattività dell’esperienza scolastica”.
Ci domandiamo se basteranno i 2,1 miliardi stanziati dai fondi Pnrr, che potrebbero dare gamba a quel Piano nazionale per la scuola digitale, che tanto ha promesso, e troppo ha disatteso, dopo l’emergenza della pandemia.
Pensiamo che sarebbe meglio se le variabili che incombono sulla scuola degli ultimi anni si affrontassero con maggiore programmazione, al di là dei limiti delle contingenze; dalla Dad all’impiego dei device, fino a quell’educazione alla cittadinanza digitale che la comunità educante ha delegato alle App e ai social network, determinando una condizione di svantaggio culturale che costringe gli insegnanti ad inseguire linguaggi e strumenti sconosciuti e sempre nuovi.
Crediamo, come Fondazione Carolina e ne sono personalmente convinto, che fintanto che la scuola, intesa come sistema nella sua straordinaria complessità, non saprà avviare una riforma profonda, dovremo abituarci a questi salti nel buio, dettati da una corsa tecnologica ancora lontana dal rallentare.
Secondo noi, provare per credere, al momento agli insegnanti basterà ricorrere ai temi di stretta attualità per scongiurare qualsiasi utilizzo dell’algoritmo più amato dagli studenti. Un esempio? Provate a chiedere di scrivere un elaborato sull’impatto della scomparsa della Regina Elisabetta sulla società britannica e il sistema non saprà fornire una risposta. Uno a zero, palla al centro.
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