Come ha anticipato anche il nostro direttore Alessandro Giuliani, il Governo ha tutte le intenzioni di andare avanti con l’autonomia differenziata, come da annuncio dello stesso Roberto Calderoli, ministro leghista per gli Affari regionali e le Autonomie. E allora, per immaginare come possa svilupparsi la formula autonomistica, andiamo a recuperare il programma di Governo prodotto in campagna elettorale dalla Lega e facciamo il punto sullo stato dei lavori.
I leghisti la chiamano rivoluzione gentile, quella del federoregionalismo (ispirato al modello spagnolo), una rivoluzione autonomista dal basso, che parte dai territori e che ben si coniuga, a loro dire, con la prospettiva del presidenzialismo.
Le prime mosse da cui dovrebbe partire, secondo il programma elettorale, sono le seguenti:
Obiettivo della riforma sarebbe, secondo quanto leggiamo nel programma di Matteo Salvini, quello di valorizzare le differenze mediante il raggiungimento di “ampi e articolati percorsi devolutivi di prerogative, oggi in capo allo Stato centrale, al sistema regionale”.
L’argomentazione di fondo? “La Costituzione repubblicana offre l’opportunità alle Regioni a Statuto ordinario di richiedere, ricorrendo all’articolo 116, terzo comma, forme e condizioni particolari di autonomia. L’istituto del cosiddetto regionalismo differenziato per altro – senz’ombra di dubbio, in forma diversa – esiste già, inteso come principio, tra le cinque Regioni a Statuto speciale. Sulla base del proprio Statuto, infatti, ognuna di queste Regioni alle quali la Repubblica ha riconosciuto una collocazione speciale nell’ambito dell’architettura istituzionale dello Stato, ha dei margini di autonomia diversi dalle altre. Il terzo comma dell’articolo 116 della Carta può allora essere letto come il tentativo di estendere questo validissimo principio anche alle Regioni a Statuto ordinario”.
I due principi regolatori sarebbero quelli della responsabilità e dell’efficienza. “Da un lato – leggiamo – la singola Regione che chiede più autonomia si accolla la responsabilità istituzionale di sostituirsi allo Stato nella gestione di determinate funzioni, coerenti con la propria vocazione economica e produttiva e la propria fisionomia sociale e
culturale. Dall’altro accoglie pure la sfida dell’efficienza: deve cioè dimostrare di essere in grado di fornire ai propri cittadini dei servizi che hanno un costo inferiore, rispetto allo Stato, e una qualità superiore. In questo modo lo Stato viene alleggerito e sgravato di alcune pesanti incombenze, nella prospettiva di erogare dei servizi, per il proprio territorio e a beneficio dei propri cittadini, con un minore costo e una maggiore qualità“.
La Costituzione prevede che le Regioni in pareggio di bilancio possano aprire un negoziato con il Governo per ottenere maggiori margini di autonomia in 23 materie: tre competenze esclusive dello Stato e tutte le venti competenze concorrenti iscritte nella Carta.
Il servizio studi della Camera dei deputati, settembre 2022, ha prodotto un documento riepilogativo nel quale si precisa in quali materie potrà essere esercitata l’autonomia differenziata. Si tratta di:
Tuttavia, va chiarito che non è possibile trasferire una materia “in blocco”. È necessario scomporre ogni materia nelle singole funzioni in cui è articolata.
Insomma, la questione regionalista non nasce oggi e con questo Governo, ma è un processo che ha preso già il via dalla trattativa che Palazzo Chigi ha aperto con le regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna e che in pandemia ha subito uno stop.
Ad oggi quindi sappiamo che per approfondire le questioni legate al percorso di attuazione del “regionalismo differenziato” la Commissione parlamentare per le questioni regionali ha svolto tra marzo 2019 e marzo 2021 un’indagine conoscitiva nell’ambito della quale sono stati ascoltati rappresentanti del Governo, rappresentanti degli enti territoriali nonché studiosi ed esperti della materia oggetto dell’indagine e approvato nella seduta del 12 luglio 2022 un documento conclusivo. Con particolare riferimento agli aspetti dell’autonomia finanziaria, la Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale sta svolgendo un ciclo di audizioni.
Quando si parla di scuola, l’interesse delle regioni è elevatissimo, dato che la scuola italiana è l’ambito amministrativo di maggiore spesa sociale per lo Stato (dopo la spesa in previdenza). Insomma, il ministero dell’Istruzione è un gigantesco datore di lavoro, se pensiamo che in stipendi scuola lo Stato spende attorno ai 45 miliardi di euro (secondo i bilanci degli ultimi anni). Dopo il Ministero dell’Istruzione oggi abbiamo solo, a grande distanza, il ministero della Difesa e quello dell’Economia, con 17 miliardi circa ciascuno (secondo quanto riporta la rivista Il Mulino). In altre parole, il settore dell’istruzione è un comparto che può fare gola ai presidenti di regione, i quali, nell’ottica dell’efficienza, potrebbero intervenire sulle procedure di reclutamento, sugli stipendi, sugli orari e sulle norme contrattuali, che potrebbero divenire differenti su base regionale. A vantaggio dei docenti? Tutto da vedere. Ricordiamo il principio di fondo citato dalla stessa Lega nel programma elettorale: “Erogare dei servizi, per il proprio territorio e a beneficio dei propri cittadini, con un minore costo e una maggiore qualità“.
Sul tentativo di regionalizzare il reclutamento ricordiamo peraltro una vicenda che risale qualche anno fa. L’intenzione della Regione Lombardia, approvata dalla Giunta Formigoni attraverso l’art. 8 della legge n.2/2012, di introdurre un modello di reclutamento innovativo, sganciato dalle tradizionali graduatorie e più vicino alla chiamata diretta, attraverso una selezione decisa direttamente dal capo d’istituto, fu bocciata, a distanza di circa 16 mesi, dalla Corte Costituzionale, che dichiarò illegittima quella norma locale che consentiva alle scuole di organizzare concorsi e reclutare insegnanti.
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