Per chi ha la responsabilità di “sistema”, come un preside, non è facile far intendere la complessità dei nostri giorni.
Dico “un preside”, e non “un dirigente scolastico”, perché chi ricopre oggi questo ruolo, prendendosi sul serio, sa che ben poco “dirige” e molto, invece, “presiede”, centro, in poche parole, di mille mediazioni, interessi, attese, con poche possibilità di incidenza, cioè di decisione, di scelta, in ordine ai “processi” e ai “risultati”. In ordine, cioè, a quel “servizio pubblico” scolastico di cui è responsabile, di fronte all’opinione pubblica.
Questa la vera sfida per chi assume un ruolo sistemico a scuola: far comprendere il valore reale di questo “servizio”. Oltre tutti i vincoli, i corporativismi, i gravi limiti di risorse non solo umane.
La scuola, in altri termini, proprio perché “al servizio”, dovrebbe essere ripensata nei termini di “scuola della comunità locale”, istituzione chiamata a rispondere, nel concreto, alla domanda di formazione anzitutto umana, e poi culturale, sociale, relazionale. In vista di “competenze” spendibili, accertabili, anche misurabili. Sapendo la difficoltà di questa “misurabilità”. Del resto, lo sappiamo, la valutazione è l’unico vero atto obbligatorio a scuola, come rendicontazione di un lavoro fatto anzitutto, ma non solo, in classe. Il problema, però, é che non è scontata, all’interno delle stesse scuole, questa semplice verità: attraverso la valutazione (degli apprendimenti e dei comportamenti) tutti ci lasciamo, volenti o no, valutare (in termini di bontá o meno del nostro servizio scolastico), tant’è che tutti sanno chi sono i bravi insegnanti, quelli che tutti, studenti e genitori, richiedono ogni anno come propri docenti. Mentre i presidi sanno che, nella formazione delle cattedre, devono garantire l’equilibrio e la pari dignità tra e nei consigli di classe.
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Ebbene, tenere la “barra”, come si diceva un tempo, su questa responsabilità sociale della scuola è oggi più complicato di ieri. Per le mille pressioni, richieste, esigenze. È, in sintesi, finito il tempo della autoreferenza e della delega in bianco. Troppo importante, infatti, la scuola per il “sistema Paese”, per il futuro degli studenti e di un tessuto sociale.
Purtroppo, però, se è da tutti avvertita questa importanza, si fa poco o nulla per riconoscerla, come priorità di un Paese che voglia uscire dalla crisi, per dare soprattutto una speranza reale alle giovani generazioni. Domina invece l’indifferenza, al di lá delle solite frasi di rito. L’indifferenza. Non solo a livello politico.
Anzi, non c’è un’idea condivisa di “futuro”: per i nostri ragazzi, per le famiglie, per il nostro vissuto sociale. Invece, vedendo i dati drammatici di oggi, parlare di “futuro” per me, come per i genitori e per i docenti, significa testimoniare una idea di “speranza”: la cultura e la formazione sono la vera golden share dei nostri studenti, forse centro minoritario del loro universo motivazionale. Eppure centro imprescindibile, insostituibile.
Che cosa chiedo, per farla breve, ai miei docenti? Di far luccicare gli occhi ai nostri ragazzi, trasmettendo, più che nozioni, la passione formativa, la curiosità, la domanda di senso e valore. Non contano cioè le informazioni fine a se stesse, ma le domande a partire dalle quali ogni studente è chiamato, assieme ai compagni, a cercare anche personalmente l’”oltre”: l’oltre delle stesse nozioni, informazioni, formule, dati. In relazione ad un filo rosso, che è la ricerca personale e sociale di senso, di gusto del vivere, del credere, del pensare.
Ecco, in poche parole, riassunte le ansie e le attese che mi accompagnano. Ansie e attese che cerco di condividere con i docenti e con tutto il personale della scuola, ma, prima ancora, con i ragazzi, classe per classe, attraverso visite periodiche, nonostante la complessità di una scuola, la mia (un Liceo a sei indirizzi, con 2100 studenti), che rischia di far passare in secondo piano, per la complessità, rispetto ai tanti problemi aperti, lo sfondo etico ed educativo della nostra responsabilità per l’oggi.
E’ evidente, per me, che questo sfondo, visti i limiti, i tagli, le continue norme ballerine, soprattutto quel centralismo ministeriale che non ne sa niente della scuola reale: è evidente, dicevo, che la nostra scuola, per come è impostata, oggi non è più in grado di supportare le nuove esigenze del mondo d’oggi. E non bastano le indagini Ocse a dire il contrario.
Se penso, tanto per farmi capire, che il nostro ministero dell’istruzione è la seconda agenzia del lavoro al mondo, dopo il Pentagono, questo la dice tutta sulla reale governabilità, in relazione ai risultati da garantire, secondo standard e verifiche di qualità, del nostro “servizio” (presidi, docenti, ata) ai giovani e alle loro famiglie.
Se c’è un “sogno” che mi accompagna ogni giorno è proprio questo: dare una mano per costruire una “offerta formativa” vicina ai nostri ragazzi, alle reali esigenze dei diversi contesti sociali, in stretta collaborazione con gli enti locali. Secondo una modalità, si diceva un tempo, “sussidiaria”. Cioè, come ho detto, “scuole delle comunità locali”, come è in altri Paesi europei. Con una flessibilità degli ordinamenti e delle professionalità necessarie a garantirli: cioè reale “servizio pubblico”.
Il passo successivo è la piena valorizzazione dei docenti, di quelli in gamba, che ci mettono cuore e passione. Oggi, nei fatti, sconfessati da norme, contratti e leggi che privilegiano un “tutti uguali” che è fuori della storia, tutti con lo stesso stipendio, bravi e meno bravi, con gli stessi diritti e doveri. Un finto egualitarismo, fonte di mille ingiustizie e prevaricazioni. A quando un nuovo contratto, con un nuovo stato giuridico dei docenti, con un sistema di valutazione che riconosca, come in altri Paesi, il valore ed il merito dei migliori docenti, presidi, ata?
Ma non dimentichiamo la riforma-madre, cioè nuovi “organi collegiali”, ancora figli di quell’assemblearismo da “anni settanta” che non ha mai preso sul serio il concetto di “responsabilità”. Infine, ma qui tocchiamo il cuore culturale dei vari indirizzi di studio, andrebbe ripensata l’offerta formativa dalle fondamenta, partendo dalla domanda: “quale la scuola migliore per i giovani di oggi?”. E non, come è stato sino ad ora: “come governare alla meno peggio gli organici?”. Il che implica: ridurre la frammentazione delle discipline, con classi di concorso aperte, con piani di studio meno rigidi, protesi a quell’equipollenza europea dei titoli di studio che è il vero “valore aggiunto” per i nostri giovani nel nostro contesto “glo-cale”. Senza piú la zavorra del valore legale dei titoli di studio, ma semplici certificazioni, piú funzionali alla nostra “società aperta”.
Come si vede, prendere sul serio le nuove domande formative richiede scelte coraggiose, anzitutto a livello politico e sindacale. Ma non so se vi è piena consapevolezza. Anzi, vi è il deserto.
Un Paese serio, ad esempio, non dovrebbe far passare, quasi nella indifferenza generale, i dati non positivi derivanti dalle prove Invalsi e Ocse-Pisa. Un Paese serio dovrebbe seriamente rimettere in gioco tutto, per migliorarli, quei risultati. Questi dati, pur con i loro limiti, ci dicono comunque dove sta andando il nostro Paese, nel contesto globale.
Queste preoccupazioni, che mi accompagnano guardando ogni giorno negli occhi i miei studenti, non sono, insomma, molto diffuse.
Quale riscatto, mi chiedo spesso, per il nostro “sistema Paese”? L’Italia, lo ricordo, è, assieme alla Romania, ultima in Europa per numero di laureati.
Manca, da noi, in poche parole una vera politica della formazione, con scuole medie, prima, e poi scuole superiori, poi, capaci, nel concreto, di “orientare” e guidare i giovani e le famiglie ad un futuro possibile, plausibile, con reali pari opportunità. Ci vorrebbe una politica lungimirante. Ma tant’è. Con tutti i ministri che finiscono a Viale Trastevere che si lasciano annullare dalla sola logica degli “effetti annuncio” e del mero governo degli organici. Lasciando ai burocrati, i quali non sono mai entrati in classe, mai discusso in un collegio dei docenti, o nelle assemblee di genitori e studenti; finendo per dare loro spazio totale sulle decisioni, solo sulla base di un alcune proiezioni statistiche. E la scuola reale? La cultura amministrativa è necessaria, ma non sufficiente!
Le conseguenze, per il futuro dei nostri ragazzi, le conosciamo bene. Non occorre citare le rilevazioni Istat ed Eurostat sulla disoccupazione. A me interessa, invece, ricordare i dati che ritroviamo in Austria (4,7%), Germania (5,3%) e Lussemburgo (5,7%).
Sempre più giovani, alla domanda, alla fine degli orali agli esami di maturità, sulla propria idea di futuro, rispondono dicendo di immaginare un periodo all’estero, da subito o dopo la laurea. Per imparare le lingue, per le maggiori opportunità, per un’idea di libertà. Ma senza riscontri concreti. Sogni di gioventù, potremmo aggiungere.
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