Tutto sommato non sarebbe una brutta idea se i nostri parlamentari, ancorché pagati, ad avviso di parecchi tra loro, appena appena il giusto, si occupassero di comprendere quali siano i problemi del “popolo” che, lungi dall’essere un’entità astratta, è costituito in gran parte dalla massa di lavoratori dipendenti. Questi sono, secondo l’ultima rilevazione ISTAT, 18.554.000 contro i 5.036.000lavoratori indipendenti a vario titolo. Va da sé che sotto l’etichetta “lavoratori dipendenti” si trovano cittadini la cui collocazione socio-economica non è uniforme: ma la gran parte di questi dipendenti gode di una retribuzione medio-bassa, come conferma l’ultimo Rapporto ISTAT: infatti lo stipendio medio dei dipendenti italiani “è pari a quasi 27 mila euro, inferiore del 12% a quella media Ue e del 23% a quella tedesca, nel 2021, a parità di potere d’acquisto”. Il lavoro dipendente in Italia è in sofferenza e non è una novità.
All’interno di questo quadro piuttosto fosco, si collocano poi alcune aree foschissime. Per esempio, esiste un sotto-insieme di particolare rilievo, costituito da tre milioni e duecentomila dipendenti pubblici; questa massa non trascurabile di cittadini è stata vessata da una decina d’anni di mancati rinnovi contrattuali seguiti da una serie di rinnovi-farsa (siamo al terzo), con aumenti retributivi irrisori.
Non solo: tutti i dipendenti pubblici hanno dovuto subire l’affronto di vedere sequestrato per anni il loro trattamento di fine servizio. La questione è nota, scandalosa ed ogni tanto torna sulle prime pagine dei giornali. Quando il 23 giugno 2023 la Corte Costituzionale si è espressa sulla materia, abbiamo tirato un mezzo sospiro di sollievo. E, ingenuità!, abbiamo anche pensato: “Finalmente ci siamo!”. La Corte, infatti, ha stabilito che il differimento della corresponsione del TFS dei dipendenti pubblici andati in pensione per raggiunti limiti di età o di servizio contrasta con il principio costituzionale della giusta retribuzione, di cui il TFS costituisce una parte; non soltanto tale cifra dovrebbe essere congrua, ma anche erogata tempestivamente.
Qualche flebile speranza ce l’aveva fornita a maggio 2023 il presidente uscente dell’INPS, il dottor Tridico, che (forse perché uscente?) aveva dichiarato che, qualora la Corte Costituzionale si fosse espressa favorevolmente circa il pagamento immediato del TFS, il costo sarebbe stato di “14-15 miliardi” da lui giudicato «alla portata dell’Inps». Tale dichiarazione veniva anche riportata in un articolo del Sole24ore già molto chiaro a partire dal titolo: Paradosso Inps, gli statali pagano l’1% per ottenere subito i loro soldi del Tfs. La storia infinita, contorta ma poco appassionante, del versamento di una quota del TFS attraverso uno strano prestito bancario, mediante il quale il lavoratore paga per ottenere ciò che è suo, ce la riserviamo per un’altra puntata; qui vogliamo mettere in luce la contraddizione tra quello che si fa mentre si ricopre una carica e quello che si dice quando la si sta per abbandonare. E il dottor Tridico non costituisce un’eccezione.
Tra le tante ingiustizie e storture che i cittadini di questo Paese, se dipendenti pubblici, hanno dovuto subire c’è dunque anche questa: l’essere obbligati ad attendere per anni quanto lo Stato doveva loro di liquidazione. Parliamo al presente perché non ci risulta che dal 23 giugno ad oggi qualcosa sia cambiato in meglio. Una nota personale: quanto scrivo è anche legato al fatto che un’amica che ha lavorato a scuola, mi ha detto, arrabbiatissima, di non aver ancora ricevuto nemmeno un euro del TFS, pur essendo andata in pensione il primo settembre 2020! Sappiamo chi ringraziare per questo provvedimento: fu il governo Monti, che si era messo in testa di salvare l’Italia ma non gli italiani e che, in un amen fece passare una riforma pensionistica draconiana, contro ogni logica di sviluppo, ma avallata dagli economisti neo-liberisti che dagli anni Novanta dettavano legge incontrastati. Il potere delle parole è forte: non a caso il decreto di cui faceva parte la peggiore riforma pensionistica del secondo dopoguerra era compreso nella cosiddetta manovra “Salva Italia”.
A Monti non mancava il senso dell’ironia: lo spostamento in avanti sino a sette anni dell’età della pensione veniva giustificato con la necessità di garantire “equita’ e convergenza intragenerazionale e intergenerazionale”; si consolidò in quel momento la leggenda dei padri che erodono le risorse dei figli, che può essere sostenuta soltanto da ragazzotti senza testa e senza cultura, in piena crisi adolescenziale (ma in questo caso li possiamo scusare per la giovane età) o da persone adulte e in malafede, adepti della religione neo-liberista, che vogliono togliere alle classi subalterne quel poco di benessere che gli anni tra il 1960 e la metà degli Ottanta avevano loro assicurato.
Il blocco temporaneo del TFS rientra in questo quadro di economie “sino all’osso”: in base all’articolo 1, comma 484, legge 27 dicembre 2013, n. 147 il TFS dei dipendenti pubblici viene, da allora, liquidato in una prima tranche (sino a 50.000), per la quale, mediamente, chi è andato in “pensione anticipata”, vale a dire con 41 anni e dieci mesi di servizio se donna e con un anno in più, se uomo, deve attendere 27 mesi (ma non sono rare attese superiori); la seconda tranche, sino ad altri 50.000 euro, arriverà dopo un altro anno e quello che resta, nel caso ci sia, ancora dopo un anno. Se tutto funziona come deve il lavoratore avrà il suo “salario differito” sotto forma di TFS nel giro di quattro anni! Questo per i lavoratori pubblici; i lavoratori privati vengono liquidati in tempi molto più brevi. Ci voleva il pronunciamento della Corte Costituzionale per stabilire l’incostituzionalità di questa situazione?
L’ingiustizia era lampante sin da quando in provvedimento è stato emanato. A perenne vergogna di tutte le organizzazioni sindacali, comprese quelle di base, è da ricordare che contro la riforma pensionistica del duo Monti-Fornero furono indette quattro ore di sciopero generale. E sempre a perenne vergogna di ogni organizzazione che si pensi di sinistra, si lasciò in mano a Salvini l’organizzazione di un referendum anti-Fornero, che non ebbe alcun esito. Gli anni che seguirono videro l’alternarsi di governi di diverso colore politico: nessuno di questi governi riuscì a porre rimedio agli evidenti problemi posti dalla “riforma Fornero”.
Di più: nessuno di questi governi, compreso l’attuale, è stato in grado di risolvere la questione del pagamento tardivo della liquidazione ai dipendenti pubblici. Non è un problema di difficile soluzione: basta pagare il dovuto a chi ha lavorato per una vita, tanto più che la Corte Costituzionale ha messo nero su bianco i motivi della illegittimità del pagamento tardivo. Ma chi governa ha a cuore altre cose. Farebbe invece bene a sanare questa ingiustizia che, se fosse commessa da un comune cittadino, ricadrebbe nel reato di appropriazione indebita: “Commette il delitto di appropriazione indebita chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso”. Questo dice l’articolo 646 del codice di procedura penale.
Sebbene lo Stato non possa essere equiparato al comune cittadino, resta il fatto che trattenere ciò che spetta al lavoratore anziano che si avvii verso la pensione è un abuso grave: la liquidazione, infatti, non è un regalo o un “benservito” generosamente elargito dal padrone-datore di lavoro ma “salario differito”, che spetta di diritto al lavoratore alla fine della sua carriera, tutto quanto intero e in tempi molto brevi.